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Intervista manicomio Lucca

Testimonianze manicomiali: Enrico da Lucca

Tutto è cominciato a Lucca, nel manicomio di Maggiano.
Era il 2006 e un giovane Giacomo Doni si apprestava a terminare la prima richiesta di permessi per entrare dentro un manicomio.
Entrare legalmente, dalla porta principale, andando contro tendenza al movimento Urbex che stava prendendo campo proprio in quel periodo.

Armato di una Nikon Coolpix 8800, un biglietto del treno andata/ritorno per Lucca e con una leggerezza indimenticabile: quella del fotografare per scoprire, quella del creare per il gusto di creare, quella che non si pone limiti e scopi.
Era il 2006 quando vidi per la prima volta il manicomio di Maggiano e scoprii che il manicomio non era soltanto un ospedale.

Il silenzio dei corridoi, in grado di scavare dentro di noi, i colori delle pareti, le storie nascoste nella polvere e la sensazione di essere dentro la storia, di essere immersi dentro un immenso patrimonio umano e culturale.
Emozione indimenticabile, proprio come il viaggio di ritorno in cui fai i bilanci della giornata, esattamente come in ogni ritorno.

L’eccitazione di mostrare le foto ai miei genitori, ad i miei amici; l’abbozzare una sorta di editing grossolano e di pensare a un titolo di queste foto. PERSISTENZE poteva andare, alla fine era quello che cercavo.
Ero diventato testimone di un mondo invisibile: ancora non sapevo che non stavo soltanto fotografando luoghi abbandonati ma stavo raccogliendo storie di spazi che sarebbero potuti scomparire da un momento all’altro.

Ricordo il 2006 come un anno estremamente complesso perché ero dipendente in una azienda che stava fallendo, stava sprofondando. E con lei anche alcune mie mensilità arretrate.

Ricordo che in quel periodo iniziai a fare foto, smisi di fumare e mi fidanzai con Valentina.
Quando tutto sembrava sprofondare, la Vita mi stava offrendo il regalo più grande.
Non lo sapevo ancora, ma le cose avviate in quel periodo hanno definito la mia vita oggi.

Come non sapevo ancora che raccontare il manicomio sarebbe stata la mia missione.
E forse lo è diventata proprio perché non lo sapevo, perché non cercavo uno scopo ma risposte.
Non cercavo delle immagini ma delle storie.
E quante di queste storie Enrico Marchi mi ha raccontato, e sono estremamente felice di aver raccolto il suo contributo.

Enrico Marchi, è nato a Lucca il 21/11/1952. Ha lavorato al manicomio di Maggiano immediatamente dopo la legge 180, nel 1979-80, poi successivamente nel 1995-1999, data della definitiva chiusura. Ha anche prestato servizi saltuari di guardia attiva presso il manicomio di Volterra, nei primi anni ’90, durante il suo incarico professionale presso la ASL di Pisa.
Ha contribuito alla chiusura definitiva di Maggiano, impegnandosi nel programma operativo “Superare Maggiano”, e successivamente ha diretto i servizi psichiatrici lucchesi (1999-2012). Da studente di medicina era attratto dall’esperienza psichiatrica lucchese, tesa alla dimissione dei pazienti ricoverati e all’organizzazione territoriale dei servizi già dagli anni ’60, attraverso progetti socio-riabilitativi e assistenziali di grande innovazione. È stato molto interessato dai libri di Mario Tobino sulla vita manicomiale e dall’esperienza di Franco Basaglia, impegnandomi nelle varie ASL dove ho prestato servizio, nell’ organizzazione dei servizi riabilitativi.
E questa è la sua testimonianza.

Perché hai scelto di lavorare in manicomio?
Ho scelto di lavorare in Manicomio per contribuire ad una sua definitiva chiusura, cercando di mantenere vive le buone pratiche che avevano ispirato i percorsi di dimissione già 20 anni prima della legge 180. Il servizio pubblico è stato il mio primo interesse in quanto attratto dalla  psichiatria sociale e di comunità.

Che idea avevano le persone del manicomio quando hai iniziato la tua carriera lavorativa?
L’idea di alcuni era legata al momento storico: nonostante le sopracitate buone pratiche da sempre in atto presso il manicomio di Lucca, Maggiano  appariva come un ostacolo da superare per poter attuare moderni e umanizzati percorsi terapeutico-riabilitativi; un luogo di scarsa terapeuticità e anacronismo clinico, viste le recenti  acquisizioni in campo neurobiologico e psicofarmacologico, delle scienze socio-educative e della psicologia dinamica.Altri invece intravedevano una minaccia nella chiusura definitiva degli OOPP, essendo fortemente legati a vecchi schemi di cura e poco interessati a sperimentare nuove pratiche territoriali, senz’altro meno rassicuranti per operatori da sempre abituati ad un rapporto molto asimmetrico col paziente e legati invece al mantenimento della sede lavorativa vicino alla propria residenza.

Cosa hai imparato dalla tua esperienza così a stretto contatto con la disabilità mentale?
Il rispetto della persona, la  necessità di ascoltare i pazienti e le loro famiglie, il bisogno di ricostruire la loro storia e di attivare abilità, talenti e  anche dare spazio ai loro sogni di salute.

Come ha influenzato il tuo modo di vivere il quotidiano?
L’influenza è sta abbastanza reciproca, dato che ho riportato molto sul lavoro i valori familiari e sociali, i miei talenti, la mia curiosità, il mio interesse per gli altri. Di fatto poi il quotidiano contatto con persone che necessitano attenzione e affetto terapeutico, ha influenzato positivamente anche i miei due figli  che si sono molto avvicinati a questo settore della professione di aiuto, indirizzandoli negli studi e nella  successiva professione.

Manicomio di Maggiano – Celle di contenzione

Come hai gestito l’empatia e il dolore che questo spazio poteva trasmettere?
Mi sono sempre confrontato con colleghi e collaboratori, lasciando che tutto quello che mi arrivava dal contatto quotidiano non mi influenzasse troppo, ma nemmeno mi lasciasse indifferente. Ho inoltre seguito un training analitico personale e di gruppo che mi aiutasse a meglio leggere le mie “questioni interne”.

Che rapporto hai instaurato con i pazienti?
Ho sempre cercato di avvicinarmi ai pazienti senza però travalicare quel  doveroso, ancorchè piccolo, spazio di distanza  che renda realmente efficace la relazione di aiuto, nel rispetto cioè di alcune regole di comportamento e atteggiamento che  permettano ad un giusto atteggiamento empatico di mantenere validità e spessore curativo. Non chiamerei quindi il rapporto che ho avuto con i pazienti come confidenziale o amicale, ma piuttosto come una relazione di aiuto empatica e fortemente orientata al recupero psicosociale del paziente.

Qual è la persona che ha lasciato più il segno nella tua anima e la sua storia?
Direi senza dubbio Armida e la sua storia: nata in un orfanotrofio e appena ragazzina ricoverata in manicomio, Armida, dopo un percorso psicoriabilitativo molto intenso e sentito da tanti operatori, è a tuttoggi felicemente inserita in una famiglia affidataria.

Il ricordo più bello della tua esperienza?
Direi che è stato il periodo in cui abbiamo organizzato il Convegno mondiale di arteterapia a Lucca, con il consorzio universitario europeo ECARTE, nel 2011. Siamo riusciti a portare a termine con grande soddisfazione una settimana di mostre, spettacoli, relazioni scientifiche, seminari esperienziali e conferenze con soggetti provenienti da tutto il mondo, ricevendo complimenti e attestazioni di stima da tanti colleghi. Ma non devo dimenticare la prima del film in cortometraggio “Il Sogno d’Oro”, scritto e girato con un gruppo di pazienti in riabilitazione e ispirato alla musica di Giacomo Puccini. In entrambe queste situazione, assieme a tanti altri pazienti, Armida ha ricoperto ruoli importanti.

E quello più doloroso?
Ci sono state tante delusioni e intoppi, nonostante non siano mancati momenti di gioia per il successo di cure e percorsi di riabilitazione.Molti momenti di difficoltà. Tra tutti vorrei però ricordare la grande delusione provata per il fallimento di un inserimento eterofamilare (Affido), dovuto al fratello di un paziente: praticamente vissuto da sempre in manicomio,  felicemente poi inserito in una famiglia poco prima della chiusura definitiva,  un fratellastro preoccupato degli sviluppi ereditari della vicenda, vista la crescente autonomia del paziente, lo ha fatto tornare in una RSA attraverso un subdolo ricatto affettivo, con il consenso del Giudice Tutelare.Non trascurerei neppure episodi molto dolorosi legati ai suicidi o a ricoveri in TSO, o peggio ancora in OPG,  per il fallimento dei percorsi terpautico-riabilitativi.

E per concludere, l’amore esiste?
Certo che sì, declinato nelle sua tante sfaccettature e scenari. Questo questionario ne è un bellissimo esempio…!

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