Volterra è stata la miccia che ha acceso tutto.
Non dimenticherò mai la sensazione che ho vissuto quando, per la prima volta, mi sono trovato di fronte al graffito di NOF.
Tratti sulla pietra che mi hanno violentemente sbattuto in faccio in mondo manicomiale.
Parole, pietra, silenzio, manicomio.
Ricordo tutti i viaggi che ho fatto in questa meravigliosa perla toscana e ricordo anche, in un modo assolutamente limpido, i momenti passati con Angelo Lippi, straordinaria memoria orale del luogo.
Angelo nasce a Lucca il 15 Settembre del 1940, si dichiara un “cattivo studente” per il suo percorso scolastico fino al momento dell’iscrizione alla “Scuola superiore di servizio sociale ONARMO” di Pisa dove si trasformò ed iniziarono ad arrivare i primi, e apprezzabili, risultati.
Il curriculum di Angelo è di tutto rispetto: Supervisore regionale dell’ente Italiano di Servizio Sociale, presidente dell’ordine regionale assistenti sociali, giudice onorario al tribunale per i minorenni, docente di “organizzazione dei servizi sociali” all’università di Pisa e di Siena, autore di oltre 100 pubblicazioni.
È felicemente sposato da 55 anni, ha 3 figli e 5 nipoti; dice di scrivere e di leggere “poco” ma di ricordare il passato “troppo”. Attualmente collabora con l’ONLUS Inclusione Graffio e Parola, l’Associazione che si occupa della tutela della memoria del manicomio di Volterra.
Angelo ha prestato la sua voce in 3 foto della mia mostra virtuale, visita 15×10: 15 fotografie per 10 anni di blog.
Angelo è una risorsa preziosa per la tutela della memoria manicomiale italiana, e questa è la sua testimonianza.
Perché hai scelto di lavorare in manicomio?
Il lavoro di supervisore regionale era molto gratificante e formativo (ancora oggi ne godo i metodi e le idee), ma la paga era bassa ed io avevo già due figli. C’era un concorso (1970) al manicomio di Volterra, dove si poteva guadagnare quasi il doppio di quello che percepivo! Non volevo rinchiudermi sul “ poggio” volterrano e non feci niente per prepararmi; infatti arrivai quarto su quattro candidati, ma due si ritirarono e risultai “vincitore”: a quel punto era impossibile non accettare. Volterra è stata la mia fortuna: ho trovato, dopo il primo tragico anno, nuovi colleghi, giovani medici e diversi operatori, pronti a prepararsi per il nuovo modo di affrontare la sofferenza psichiatrica e intanto, nel mio tempo libero, potevo insegnare, pubblicare, anche sulla rivista Neopsichiatria dell’OP di Volterra, sperimentare nella comunità terapeutica Villa Caggio, fare lavoro di territorio. In molti eravamo spinti ad impegnarci per i diritti dei ricoverati e molto altro nell’ottica di sensibilizzazione, sperimentazione, confronto. Dopo il primo sfortunato anno vidi spiragli di soddisfazione per gli obiettivi che ci eravamo dati, grazie anche alle nuove leggi che videro la luce nei rivoluzionari anni ’70. Ora sono soddisfatto di avere scelto questo lavoro,… a Volterra!
Che idea avevano le persone del manicomio quando hai iniziato la tua carriera lavorativa?
L’idea era che per i ricoverati non c’erano speranze di uscirne! Del resto la vecchia legge prevedeva la “definitiva ammissione al manicomio” decretata dal tribunale, però una leggina del 1968 la legge stralcio Mariotti (n. 431) consentì larghi spazi di intervento, spazi che a Volterra furono occupati produttivamente, nel completamento degli organici, nella trasformazione di molti ricoveri da coatti in volontari con la riacquisizione del diritto al voto, a gestire qualche soldo, a non avere la segnalazione del ricovero nel casellario giudiziario. Inoltre furono organizzate per i ricoverati vacanze al mare, dimissioni brevi per riacquisire la capacità di autonomia, corsi serali di lettura/scolarizzazione, e di formazione professionale, comitati di gestione partecipati, assemblee, scambi con il mondo dell’arte, contestualità di lavoro fra territorio e istituzione manicomiale, ecc. ecc. ecc. L’immagine del “matto” è rimasta nel tempo in buona parte della popolazione, che alla fine viveva grazie alla presenza dei ricoverati e quindi il manicomio era parte integrante della vita di molte famiglie (negli anni 30 il manicomio aveva più di 900 dipendenti!!). Quindi il ricovero era ritenuto un evento indispensabile per curare la diversità dei comportamenti e delle autonomie. Anche oggi è rimasta la “nostalgia” del manicomio “umanizzato” e storicamente integrato nella città, al di là della evoluzione delle leggi e dei nuovi metodi di trattamento della salute mentale.
Cosa hai imparato dalla tua esperienza così a stretto contatto con la disabilità mentale?
Ho imparato: che nella comunità di vita c’è posto per tutti, ma che ci vuole tempo per rendersene conto e per provare a metterlo in pratica. Che oggi nel campo dei “ portatori di handicap” vediamo evoluzioni positive prima impensabili!! Che il mistero della psiche è spesso insondabile, ma mettendo al centro la persona, si può avere occasione di fare qualcosa nel contesto di progetti individualizzati. Che un lavoro integrato fra competenze professionali diverse e famiglia e territorio, può portare a risultati efficaci. Che “il malato” (che in manicomio era anche il down, il parkinsoniano, l’alcoolista, il pellagroso, ecc., ecc. ) può avere risorse nascoste e che occorre aiutarlo a farle esprimere. Ho sperimentato anche la disperazione degli insuccessi, tanto da sentirmi responsabile, incapace, fallito. Le esperienze in atto a favore dei disabili in generale sono una dimostrazione indiscutibile che si può fare qualcosa/molto (?) per valorizzare le potenzialità residue della persona a disagio fisico, psichico o sensoriale anche e soprattutto, senza l’internamento a vita.
Come ha influenzato il tuo modo di vivere il quotidiano? Il manicomio è stato un punto unificante per la nostra famiglia: i miei figli andavano lì a scuola di musica e socializzavano con i ricoverati, insieme andavamo nel teatro interno dell’OP a vedere i film di cartoni animati, mia moglie vi ha svolto il tirocinio professionale (ed ha fatto una mostra di acqueforti ispirate al manicomio), qualche volta avevamo visite di ricoverati a casa nostra, d’estate ci trovavamo al mare vicini alla spiaggia della Villa Mazzanta dove i ricoverati andavano in vacanza e in genere non mancavano altre occasioni cercate o capitate per caso, da condividere. Il nostro modo di vivere nel quotidiano era ed è anche oggi condiviso per i molti ricordi e impegni in comune. Credo che abbiamo imparato molto sul rispetto, sulla tolleranza e sulla ricerca di modi di convivere con gli altri.
Come hai gestito l’empatia e il dolore che questo spazio poteva trasmettere?
L’empatia possibile ci dava soddisfazioni, ma il dolore degli insuccessi è stato ed è disperante, anche nel ricordo a distanza. Durante il servizio svolto in Ospedale Psichiatrico si poteva far conto sul lavoro di equipe e di gruppo fra operatori, a volte con il rischio di colpevolizzare la persona in difficoltà con la scusante: “io ho fatto di tutto per te, ma se non vuoi cambiare o se non ti riesce cambiare, la colpa è tua”. Difficile darsi contenuti relazionali nuovi senza il supporto di colleghi più preparati. In molte situazione sarebbe stata necessaria una supervisione che ci aiutasse a ritrovare l’empatia di una relazione efficace ed avere una formazione continua e condivisa. Ci sono stati momenti in cui siamo riusciti a trovare anche questi supporti in modo da aiutare anche noi stessi a sostenere in maniere tecnicamente corretta le persone “in carico”.
Che rapporto hai instaurato con i pazienti?
Nei vari anni si sono avute forme diverse di rapporto: a momenti prevaleva l’intervento farmacologico, o il lavoro di equipe, o nella terapia familiare, o nelle esperienze di reinserimento in famiglia (rare) o in strutture protette. Ci sono stati anche momenti di formazione al nuovo, come la terapia familiare, ma la partenza del nostro lavoro (sto parlando della mia esperienza a volte non praticata da altri gruppi di lavoro) è sempre stata colorata da una relazione umana e solidale accettata come base per avviare un rapporto a “intensità terapeutica variabile”, in base alla conoscenza ed ai bisogni che la persona presentava e sui quali si ipotizzava e si verificava l’intervento più adatto. Allora verrebbe da dire: “tutto bello? tutto efficiente? tutti miracolati?” Magari! Il condimento della vita manicomiale erano delusioni, regressioni, atteggiamenti aggressivi, insomma tutto quello che capita nella vita relazionale di ognuno indipendentemente dal posto di lavoro, ma più frequente e in campo psichiatrico.
Qual è la persona che ha lasciato più il segno nella tua anima e la sua storia?
Luciana aveva 27 anni, triste e depressa, con una figlia di pochi anni. Il giorno del suo compleanno piangeva, sola e dimenticata, con il capo appoggiato alla mia spalla. Però io avevo ben altri pensieri nel capo: non sapevo come consolarla, avevo premura di ritornare a casa e perciò dicevo frasi di circostanza, inutili per Luciana che non aveva ricevuto nessun augurio dal marito, decisamente disturbato sul piano psicologico -e oltre- e nessun segnale di solidarietà né dai genitori né dagli amici. Mentre dicevo frasi stereotipate, Luciana ha alzato la testa dalla spalla, mi ha guardato con gli occhi arrossati dalle lacrime e mi ha detto: “Sei qui e mi parli, ma sei lontano, a chilometri di distanza”. Un vero pugno nello stomaco, … aveva ragione!! Mi pesa molto questa insensibilità mascherata, ma il mio atteggiamento in seguito cambiò e fu molto utile alla ragazza ed al suo reinserimento, grazie alla collaborazione con l’equipe territoriale con il tribunale competente.
Il ricordo più bello della tua esperienza?
Il primo ricoverato che conobbi a Volterra, appena assunto. Si chiamava Ghigo, aveva 70 anni, era un “gettatello” (trovatello), nato nel 1900 e scappava dall’orfanotrofio ogni volta che poteva e viveva di piccoli furti nei poderi e nelle case dei contadini del posto. Finì al manicomio con la diagnosi di “… ladro costituzionale”. Durante il periodo bellico fu molto impegnato a coltivare e procurare il cibo per sé e per i compagni di internamento. All’età di 51 anni evase dal manicomio e per 19 anni visse autonomamente inseritosi in una famiglia di contadini. Tornando da una visita specialistica, in attesa del treno locale, fu avvicinato dalla polizia che gli chiese i documenti e dal controllo vide che risultava evaso dal manicomio nel quale fu ricondotto subito. Bastò poco per decidere, direttore e primario in primis, di riportarlo nella famiglia che lo aveva accolto e fui incaricato di accompagnarlo con la mia SIMCA 1.000. Commovente accoglienza, in casa dei suoi “datori di lavoro”, da tre generazioni di benefattori. Nessuno che si fosse mai accorto della sua “costituzione” di ladro, ma avemmo qualche difficoltà ad accompagnarlo in banca a riscuotere la pensione. L’operazione fu resa possibile grazie a qualche “aiuto” degli impiegati di banca e della famiglia elettiva. La dimissione dal manicomio era avvenuta “per guarigione” (da che?).
E quello più doloroso?
Mentre stavo facendo una lezione entrò un giovanotto che avevo conosciuto al manicomio, il quale dopo la lezione mi chiese di parlare insieme. Accettai malvolentieri perché era tardi ed avevo almeno un’ora di viaggio per rientrare a casa. Mi chiese aiuto, voleva essere aiutato a stare meglio e io non seppi far altro che indicargli la sede del centro di salute mentale di Pisa, vicino alla sua residenza, visto che non accettava di essere preso in carico da Volterra. Il giorno seguente nei giornali si riportava il suicidio di questo giovane. Ogni volta che ci penso sento un peso insopportabile sul cuore, per un senso di colpa che riaffiora. Ho imparato a cercare di usare gli errori per migliorare, ma non mi basta: sul passato non funziona.
E per concludere, l’amore esiste?
Se non esistesse, bisognerebbe inventarlo!! Ci sono tanti amori (non parlo dei polyamori dei film di moda): amore per l’arte, per la musica, per la lettura, per le collezioni, per i figli, per la mamma, ecc. ecc. Quello di cui voglio fare cenno è l’amore ricambiato, fra due persone che si sentono completate stando insieme, che aspettano il momento per stare vicini e lo vivono con piena soddisfazione, per raccontarsi la giornata, per discutere i propri sogni e le proprie delusioni, per progettare insieme la vita, per darsi senza pretese di restituzione, per sentire di essere completi e garantirsi sicurezza e fiducia. Non è un dono eterno ma ha bisogno di “manutenzione”, di pazienza, di aggiustamenti, di sedersi uno di fronte all’altro e chiedersi: che stiamo facendo? Cosa decidiamo, per l’educazione dei figli, (scuola, tempo libero, salute), per i nostri anziani, per la nostra relazione, per i nostri impegni sociali? L’amore esiste: può essere passione, può diventare routine da rinnovare, può diventare assistenza reciproca, può far prevalere il valore delle cose che piacciono all’altro, può essere il “condimento” delle cose che piacciono all’altro, la dimostrazione della volontà di fargli piacere, anche nel quotidiano ripetitivo. Certo la passione irrefrenabile, lo sbigottimento dei sentimenti sono unici, ma non sono duraturi, forse, per fortuna esiste un amore adattabile, che resiste. Trovare, e poi provare, per credere. Insomma, voi fate come volete, ma io ci credo e mi ci trovo bene. ….. Secondo voi, posso far leggere a mia moglie questi pensieri?