Ricordo esattamente quando iniziai a scattare le prime foto dentro i complessi manicomiali, e di come quegli ambienti rappresentassero solo una parte dell’esperienza emozionale in cui ero immerso: questi spazi sono fatti di silenzi che rapiscono, di odori che penetrano abrasivi dentro le narici che riescono a catapultarci in quel mondo che, apparentemente, non esiste più.
Ma è fatto anche di storie.
Racconti costruiti con voci tremule, con vocaboli arcaici, con strutture grammaticali insicure, fragili e con un tono fra l’emozionato e il commosso.
Senza queste storie, la mia ricerca avrebbe perso un tassello importantissimo: quello della dimensione umana.
E questo, probabilmente, è il tassello che vale di più.
Il primo manicomio che è entrato nella mia vita è stato quello di Volterra, e ne è rimasto saldamente ancorato nella mia memoria: una giornata soleggiata, una telefonata ad un mio amico, il viaggio dentro la sua macchina rosso fuoco con le braccia fuori dal finestrino e gli occhi che guardavano il cielo e le colline toscane con i suoi meravigliosi colori.
Ricordo che ero guidato dalla leggerezza e da quella sensazione di ricerca fine a se stessa, che mi portava a cercare cose anche se non avevo ben chiaro cosa.
Non avevo mai visto un manicomio prima d’ora.
Volterra ha acceso la miccia.
È stata la prima esperienza. prima proprio come questa testimonianza che ho raccolto e che fra poco leggerai: 10 semplici domande per costruire una raffigurazione di chi, l’esperienza manicomiale, l’ha vissuta sulla propria pelle.
Voglio presentarti Ottorina Bagnoli, memoria storica del manicomio di Volterra.
È nata l’11 Ottobre del 1942 a Volterra e ha lavorato 13 anni come infermiera psichiatrica dentro il manicomio.
Mi scrive che il suo titolo di studio la 3° media inferiore presa da adulta non per pigrizia ma per miseria.
Mi scrive della sua passione per la pittura, per la lettura e anche per la scrittura.
Ottorina è un ritratto di quell’Italia del passato fatta di empatia e lavoro, di coraggio e semplicità.
Una generazione che non ha paura ad emozionarsi, che non si vergogna delle lacrime e che preferiscono scrivere rispetto al parlare.
Ottorina è uno dei tanti volti di quell’Italia che ha popolato il manicomio.
È questo è il suo contributo.
1. Perché hai scelto di lavorare in manicomio?
A Volterra, non essendoci fabbriche, non c’era molta scelta; o facevi l’artigiano o l’infermiere o la guardia carceriera.
2. Che idea avevano le persone del manicomio quando hai iniziato la tua carriera lavorativa?
La maggior parte della popolazione volterrana lavorava in O.P. che era per tutti una fonte di guadagno e lo erano anche i pazienti, infatti quando arrivavano nuovi ricoveri veniva detto ” arriva la pietra” paragonando il malato all’alabastro, altra fonte di guadagno.
3. Cosa hai imparato dalla tua esperienza così a stretto contatto con la disabilità mentale?
Ho imparato che se dai amore ricevi amore e con un trattamento più umano ottieni risultati migliori.
4. Come ha influenzato il tuo modo di vivere il quotidiano?
Lo ha influenzato profondamente. Mi ha insegnato ad essere migliore, più comprensiva e aperta.
5. Come hai gestito l’empatia e il dolore che questo spazio poteva trasmettere?
I primi anni li ho gestiti male in maniera sbagliata e controproducente per ignoranza pregiudizi, insegnamenti errati che mi facevano sentire inadeguata, in colpa, insoddisfatta.
6. Che rapporto hai instaurato con i pazienti?
In principio erano rapporti creati dalla pietà ma erano molto superficiali. Usavamo i cognomi e delle più ignoravamo il nome, la provenienza, l’età, la storia. Cose che non dovevano interessarci noi dovevamo solo provvedere alla sorveglianza, sicurezza, pulizia personale e del reparto e somministrazione della terapia.
7. Qual è la persona che ha lasciato più il segno nella tua anima e la sua storia?
Lorena, una paziente che mi era stata affidata. Con la legge Basaglia ed il cambio dei medici, dopo riunioni dubbi e discussioni si era radicalmente cambiato modo di pensare e di lavorare. ad ogni infermiera fu affidata una paziente, scelta dal medico con la quale provare a creare un rapporto di amicizia e di fiducia. Finalmente non eravamo più le guardiane ma avevamo accesso alle cartelle per scoprire le storie, le parentele, tentare di riallacciare rapporti di chi ormai considerava il ricoverato un sepolto vivo. Spingere le malate a confidarsi a esprimere i loro bisogni. Di Lorena scoprimmo che aveva assistito alla fucilazione di suo padre e a detta della mamma dopo questa tragedia Lorena smise di parlare si isolò e divenne aggressiva. La sua voce si udiva solo quando si agitava, allora gridava frasi sconnesse e bestemmie . Non fu facile ma ci riuscii e questa storia mi è rimasta nel cuore.
Purtroppo poi finì in modo inaspettato e la delusione che provai mi spinse a lasciare la psichiatria e a lavorare in ospedale civile.
8. Il ricordo più bello della tua esperienza?
E’ stato quando; leggendo a Lorena il “Diario di Anna Frank”, mi sono accorta che stava piangendo; l’ho abbracciata e lei si è abbandonata lasciandomi entrare nella sua storia. Ho altri ricordi belli di quel periodo; le porte aperte, le pazienti che entravano e uscivano, le feste danzanti, i fidanzamenti, l’aiutare a rizzar casa a chi, dimessa, andava a vivere fuori dal manicomio con il suo uomo.
9. E quello più doloroso?
Vedere Lorena trasferita in un altro reparto, regredita, muta, accucciata in un angolo come un animale ingannato e abbandonato chiusa di nuovo nella sua indifferenza impenetrabile.
10. E per concludere, l’amore esiste?
Si esiste, può far soffrire e gioire ma e’ fortunato chi lo vive.
2 commenti su “Testimonianze Manicomiali: Ottorina da Volterra”
Toccante testimonianza questa che racchiude in modo significativo la storia dei manicomi, prima l’isolamento, di seguito con Basaglia il tentativo di ricostruire un rapporto con i pazienti, il tentativo di restituire loro la dignità e l’importanza che un essere umano deve avere per diritto. C’è anche la sconfitta in questo racconto, ma credo che quei momenti passati con Ottorina abbiano dato a Lorena almeno una possibilità. Quel pianto mentre le leggeva Anna Frank è un segno che si può sempre trovare un modo per aprire una breccia nell’animo umano e quindi aiutare chiunque ci sembri, altrimenti, tanto lontano e irrecuperabile. Il mio pensiero è che bisogna sapere cercare questi segni e coglierli per restare umani.
Grazie come sempre per queste emozioni che ci regali
Grazie di questo splendido commento Francesca, anch’io sono rimasto molto colpito dalle lacrime di Lorena di fronte alla lettura di Anna Frank: questo gesto, apparentemente normale, diventa straordinario se collocato in un contesto manicomiale e ci ricorda, con forza, che stiamo parlando di persone con sentimenti, emozioni, fragilità e desideri.
Condivido totalmente che “bisogna sapere cercare questi segni e coglierli per restare umani” perché sono convinto che la Vita ce ne mostri tantissimi ma che, purtroppo, non sempre siamo in grado di cogliere.
Grazie infinite per il commento e scusami per il ritardo nella risposta.