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Guardare negli occhi la follia

Ricordo benissimo quella telefonata.
C’era il sole, un’aria leggera. C’era quiete, quella primaverile, quella che ci regala il sorriso in ogni momento della giornata.

Ricordo benissimo quella telefonata in cui mi proposero una digitalizzazione di fotografie recuperate dal manicomio. Accettai con un piacere immenso, ricordo.

Arrivò il pacco e mi trovai di fronte a una moltitudine di volti, quasi tutti in un rigoroso bianco e nero.
Dentro le scatole marchiate ILFORD, mi trovai a guardare un mondo di espressioni, di storie.
Sistemai per bene la scatola in casa e pianificai la digitalizzazione di questi scatti.

Ma commisi l’errore di far passare troppo tempo.
Feci una promessa a chi mi spedì il materiale: “Te le rispedisco insieme ad una chiavetta USB con dentro le scansioni”, dissi. Ma non feci in tempo. Purtroppo la morte portò via in un modo estremamente rapido la persona che me le spedì.

Ricordo benissimo che mi ritrovai a guardare quella scatola e mi arrabbiai con me stesso perché diedi per scontato certe cose. Il tempo passa, questo dovrebbe essere sufficiente per capire che non si può dare per scontato niente.

E siamo rimasti soli, io e la scatola.

È Luglio. La mia compagna e mio figlio sono al mare e io, da solo in casa, decido di dedicare un’intera giornata alla digitalizzazione di queste fotografie. E l’esperienza sarà tutt’altro che semplice.

L’occhio è lo specchio dell’anima

Sistemo computer, scanner e scatola nelle strette vicinanze per avviare un processo meccanico:
PIAZZARE FOTO > AVVIARE SCANSIONE > SALVARE CON NOME > RIMUOVERE FOTO

Sono le 6 e 30 di mattina. Parto con la prima fototessera.

Piazzare, scansionare, salvare, rimuovere e piazzare, scansionare, salvare, rimuovere e piazzare, scansionare, salvare, rimuovere e piazzare, scansionare, salvare, rimuovere e piazzare, scansionare, salvare, rimuovere e piazzare.

Processo meccanico, tanto meccanico da mandare il cervello in “pilota automatico”.

Eseguo questa sequenza di operazione senza pensare e, all’improvviso, inizio a sentire una sensazione molto pesante su di me. Mi fermo un attimo e guardo il monitor.

Davanti a me c’è un volto che mi guarda negli occhi, il centesimo volto che incrocia il mio sguardo.
Sono mai riuscito a guardare la follia negli occhi?

Continuo a scansionare e, foto dopo foto, il peso diventa sempre più opprimente. Sono circondato da centinaia di occhi che cercano di incrociare il mio sguardo, come in una richiesta di aiuto.
Come se avessero bisogno di attenzione. Fermati e guardami, non voltare la testa dall’altra parte.

Uomini, donne, giovani, anziani. Alcuni hanno lo sguardo lontano dalla fotocamera ma tutto il resto ti cerca. E ti trova.

Agganci la comunicazione con gli occhi.
Bulgakov scriveva che La lingua può nascondere la verità, ma gli occhi – mai!
E credo che questa affermazione sia assolutamente vera.

Concludo le scansioni alle 15 e 30, 9 ore serrate senza pause.
I volti sono poco più di 300.
Gli occhi sono poco più di 600.

Quando chiudo la scatola e rimetto in ordine le ultime foto, penso che sia necessario fare qualcosa con questi volti che ho appena recuperato. Mi fermo a riflettere: cosa mi ha colpito di più in questo lavoro?
Indubbiamente gli occhi. Il peso dello sguardo e la loro capacità aggregativa, loro sono indubbiamente i protagonisti indiscussi.

E la mia mente vola alla mia infanzia quando, guardando un libro di mio padre, mi imbattei per la prima volta in un’immagine di volto censurata.

Un rettangolo nero posto sugli occhi di un soggetto.

Ricordo benissimo che chiesi a mio padre il motivo, perché il vedere quella macchia artificiale sul volto procurava in me bambino un senso di disagio. “È per non far riconoscere la persona” mi disse mio padre.

Ma oscurare gli occhi previene il riconoscimento di un individuo o una nostra immedesimazione con la sua storia?

Gli occhi sono il primo elemento che abbiamo a disposizione per entrare in contatto con una persona: prima di darci la mano, prima di dirci “Buongiorno”, la prima cosa che facciamo è guardarci negli occhi.

Se abbiamo paura, incrociamo lo sguardo in cerca di sostegno.
Se siamo felici, incrociamo lo sguardo per condividere.
Se siamo di fronte ad uno sconosciuto, incrociamo lo sguardo per captare un pizzico della sua storia.
Sempre. Incrociamo sempre gli occhi dell’altro quando vogliamo entrarci in contatto.

M trovo di fronte a 600 occhi che sono un atlante di storia umana, e decido di praticare una forma tutela della privacy diversa da quella tradizionale, quella della classica banda nera sugli occhi che mi colpì tantissimo da bambino.

Inverto la forma ed il colore. Copro tutto il resto e lascio una striscia libera sugli occhi.
Copro tutto il resto con un blocco nero come la censura, perché penso di non aver mai guardato la follia negli occhi prima d’ora.

Occhi stanchi, esausti, tesi, vivi.

Non distogliamo lo sguardo da questi occhi, entriamo in contatto con questi individui.
Ti sei mai chiesto che sapore possa avere uno sguardo di una persona invisibile?
Quante volte abbiamo voltato la testa per evitare questa connessione con alcuni individui?

Dentro quell’umanità invisibile ho trovato le nostre debolezze, proprio quelle che non sappiamo di avere. Ho trovato tutte quelle volte che abbiamo preferito guardare da un’altra parte, ho trovato il “tanto non capiterà mai a me”, ho trovato il “ma oggi non esiste più”.
Ma ho trovato anche un grande coraggio, la fierezza di essere persone nonostante e indipendentemente, la semplicità di ambire alla vita semplice.
Ma ho trovato anche il peso dello stigma, del giudizio.
I loro occhi come specchi della nostra esistenza.

Ho scoperto che la paura ci accomuna: la paura negli occhi di queste persone è la stessa che abbiamo nei nostri occhi mentre le guardiamo. Legati dalla paura: chi del giudizio e chi dello sconosciuto, del “diverso”.
Occhi che sembrano ricordarci le nostre responsabilità perché che ci fanno sentire responsabili.
Che ci raccontano un’umanità che non sempre siamo pronti a vivere.

Mi arrendo al disagio e mi fermo a guardare quegli sguardi.
Immagino storie, immagino la loro casa, immagino dove si possa sedimentare il ricordo di queste persone, immagino la loro voglia di un rientro nella vita quotidiana. Chi si ricorderà di loro?

I loro figli, i loro nipoti, che ricordo si porteranno dietro? Quante volte avranno visto questo sguardo che ho digitalizzato in queste fotografie?

Ho scelto di mostrare la fotografia come medium storico e umano, mostrare la nostra immensa capacità di comunicare senza l’uso delle parole, perché penso che sforzarsi, almeno una volta, di guardare negli occhi il più debole, riesca a farci sentire tutti più umani.

Dedico questo post a Maurizio, e a tutto quello che hai fatto per tenere viva la memoria.
Che questi sguardi possano riuscire a fare breccia in quel muro di paura che ci portiamo dietro.

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6 commenti su “Guardare negli occhi la follia”

  1. Hai perfettamente ragione .Dobbiamo reimparare a guardare i volti concentrandoci sugli sguardi isolandoli da tutto il resto . Sarà un esercizio utile che ci riserverà molte sorprese. Grazie .

    Rispondi
    • Esatto Eugenio, bisogna assolutamente ripartire proprio da quello che hai detto.
      Aprirli all’altro, senza paura e con una nuova voglia di scoperta, solo così possiamo abbattere la paura.
      Grazie per il commento.

      Rispondi
  2. Bellissimi, bellissimi questi sguardi e bellissime le tue parole.
    Mi trovi completamente d’accordo, gli occhi non possono nascondere la verità e a volte ci spaventa
    incrociare certi sguardi, ma trovare il coraggio è importante per noi e per le persone che
    abbiamo davanti, non c’è niente di peggio che sentirsi invisibili e quando qualcuno si accorge di noi
    ci fa sentire vivi, parte di qualcosa.
    Guardandosi si condivide più che usando parole vuote e si rischiano
    meno fraintendimenti, è un modo di comunicare che bisogna riscoprire
    e questi sguardi che ci proponi raccontano davvero tanto a saperli leggere.
    Grazie come sempre
    Francesca

    Rispondi
    • Guardandoci si condivide di più, parole verissime cara Francesca, niente da dire.
      Guardandoci non possiamo mentire e comunichiamo molto più rapidamente che con le parole.
      Arriviamo al punto, diretti.

      Ma questo gesto apparentemente semplice e banale richiede di abbandonarci all’altro e questo, purtroppo, non tutti sono disposti a farlo.
      Ma è da questo gesto semplicissimo che possiamo, e dobbiamo, ripartire.

      Come ha detto William Butler Yeats “Non ci sono estranei, solo amici che non hai ancora incontrato.”

      A presto

      Rispondi
  3. È veramente geniale oscurare il volto e nn gli occhi e cercare di vedere cosa c’è dietro quello sguardo.Penso che una persona poco intelligente non si possa ammalare di mente,succede quando l i intelligenza si fa’ troppo invadente e scoppia e la persona che ha visto”tutto” diventa automaticamente differente tanto che noi lo percepiamo come di un altra razza sconosciuta e da qui la paura…che posso mai vedere ,la certezzanegli occhi di un “pazzo”? Chissà quali orrori…no io credo una maledetta solitudine paurosa

    Rispondi
    • Carissima Daniela,
      non è stato per niente semplice arrivare a questa nuova immagine, volevo assolutamente farci qualcosa con questi ritratti, veicolare un messaggio diretto e forte. La salute mentale è qualcosa che riguarda tutti, nessun escluso.
      La paura è nella creazione di differenti classi di persone, nel “noi e loro”, distinzioni che vengono totalmente cancellate se ci immergiamo in uno sguardo.
      Grazie per il commento, spero di trovare il modo di fare una mostra con questo materiale.

      Rispondi

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