L’architettura si porta dentro una grande capacità narrativa, ci racconta storie utilizzando le forme negli spazi dove viviamo. Immaginatevi quante storie di questo genere possono essere raccolte dentro le strutture manicomiali, da sempre considerate vere e proprie architetture di esclusione.
Nel 2007 visitai per la prima volta il manicomio di Cogoleto, armato soltanto di macchina fotografica e di alcune stampe da mostrare alla guida per fargli capire cosa intendevo fotografare.
Questo perché la mia ricerca vuole raccontare un mondo utilizzando solo immagini di silenzio, con architetture, colori e arredamento, persistenze di un mondo che non esiste più ma che è stato dannatamente troppo vivo.
Il tutto senza flash e luci artificiali: raccontare nel modo più sincero possibile quello che i miei occhi vedono e quello che il mio cuore percepisce.
Ricordo che la guida sfogliò con interesse le immagini e poi esclamò: “Vieni, ho in mente quello che potresti fotografare.” Iniziammo a camminare dentro il più esteso complesso manicomiale italiano, entrammo in un padiglione e mi mostrò un bagno.
Dentro il silenzio del padiglione, fra polvere e oscurità, mi trovai di fronte a questo singolarissimo bagno, con una particolarità che non ho mai trovato in altre strutture manicomiali: aveva le porte decisamente troppo basse.
Scattai sfruttando la luce che filtrava dalla finestra e i suoi toni cupi e decadenti furono enfatizzati; non ho mai voluto utilizzare il flash per raccontare gli interni manicomiali perché era come mettere un livello di estetica sopra quello che realmente vedevo e che simboleggia per me un luogo del genere: il manicomio è composto da ombre, silenzi, rovine e necessità di raccontare, gli stessi elementi che troviamo nel criterio dello stigma: ombre e cose non dette che creano rovine esistenziali che possono essere salvate solo dal confronto, dall’apertura, dal racconto.
Creare immagini senza tenere in considerazione le sensazioni che ci comunica quello che vediamo è come frenare il flusso narrativo che questi spazi ci offrono.
In quel momento però, non capii bene il motivo di quella strana conformazione del bagno.
La risposta fu disarmante: “È per permettere l’ispezione, il controllo. La masturbazione era proibita e il personale doveva riuscire a vedere con facilità cosa facesse il paziente una volta andato in bagno.”
Tutto acquistò un significato nuovo: il controllo invadeva qualsiasi cosa, anche lo spazio più intimo e riservato del bagno. Quotidianità che si sgretola perdendo i pezzi di umanità.
Macerie di esistenze. Vite private di qualsiasi spazio.
Vite dentro il controllo. Condannate al controllo.
Ricordo che dopo quel racconto mi immaginai in modo più nitido una fase di ispezione, immaginai una persona chinata, intenta nei suoi bisogni fisiologici, che poteva essere tranquillamente guardata in faccia.
Ma per avere anche una testimonianza fotografica storica di questo metodo di controllo, occorre menzionare una grande opera di denuncia: il libro bianco dei manicomi genovesi del 1974.
Questa pubblicazione, promossa dalle principali sigle sindacali, tracciò lo stato delle condizioni manicomiali del territorio ligure denunciando le pratiche dure e violente anche con la fotografia.
Qua di seguito, lo scatto di Giorgio Bergami su un bagno di Cogoleto quando era in funzione.
Questo vuol dire sintetizzare la violenza del manicomio in uno scatto. E la fotografia è il linguaggio migliore per sbatterci in faccia un passato, che ci sembra impossibile da tanto è lontano, ma che un tempo è stato un orribile presente.
Uscimmo dal padiglione, con in testa ancora le scene dei racconti della guida, e continuammo a girare negli infiniti spazi del manicomio più esteso d’Italia alla ricerca di altro materiale. Non sapevo che avrei visto anche altri bagni, questa volta però all’aperto.
E come permetter l’ispezione in bagni all’aperto? Semplice, bucando il muro.
La visione d’insieme di questi due differenti modi di edificare un bagno, mi lasciò totalmente senza parole. Scattai. Non potevo fare altrimenti.
Non mi resi conto, durante il mio ritorno a casa, di aver fotografato una cosa unica, che non avrei più ritrovato nelle altre strutture manicomiale.
Non mi resi conto di aver immortalato un racconto che ci sbatteva in faccia, con tutta la violenza possibile, come l’uomo potesse sopraffare un altro uomo utilizzando l’architettura.
Non mi resi conto di aver salvato un pezzo di storia e sarebbe poi stata raccontata a molte persone.
Non mi resi conto che un domani quel luogo sarebbe potuto scomparire per sempre, vittima del tempo e dell’incuria, e che quelle immagini che avevo catturato fossero forse le ultime rappresentazioni di quel manicomio.
Non ho pensato. L’ho fatto, semplicemente guidato dalla voglia di raccontare e immaginandomi di mostrarle a chi le avrebbe ascoltate.
Perché, alla fine, è così che si salvano le cose: facendoci guidare dall’istinto, seguendo il cuore, affidandoci alla leggerezza del non pianificato.
Adesso, nel momento in cui sto scrivendo questo post, il manicomio di Cogoleto continua la sua inesorabile discesa verso l’oblio, inghiottito da troppi anni di solitudine e invisibilità.
E mai mi sarei immaginato di non riuscire più a metterci piede dentro.
Questi bagni, ad oggi, rappresentano una testimonianza unica di quello che è stato e di quello che non deve più riaccadere, sono diventati digitali attraverso una fotografia e condivisibili attraverso un blog. Un gesto che permette a questi elementi di salvarsi dallo scomparire.
Rompere il silenzio. Penetrare nella memoria. Vivere nei racconti.
Questo dobbiamo fare.
Perché è la nostra più grossa arma contro il mostro dello stigma e dell’esclusione.
3 commenti su “DLS: i bagni del manicomio di Cogoleto”
Credo che la realta’ di questi bagni testimoni ben piu che il semplice controllo.
Mi e’ venuto subito in mente uno scritto di Alda Merini,riguardo le realta manicomiali . In cui parla delle abluzioni del corpo,che venivano svolte collettivamente con un tubo e senza riguardo. Dove la dignita umana non era contemplata. Ma era messa a nudo sotto gli occhi implacabili degli infermieri. Cosi come veniva scandagliata la mente.
Grazie per il tuo commento Daniela, hai perfettamente ragione: questi bagni sono l’esempio della violenza devastante che veniva inflitta ai pazienti di queste strutture. Se non l’avessi già fatto, ti consiglio di visitare la mia mostra virtuale (è sul sito, sotto la voce MOSTRA nel menù di navigazione) perché ho raccolto una testimonianza di un’infermiera proprio su questi bagni, magari potrebbe interessarti ascoltare una storia dalla voce di chi, questi bagni, li ha visti in funzione con i propri occhi.
A presto Daniela, un abbraccio
Era il 1979, ero una ragazzina, quando mi recai al Manicomio di Quarto a trovare una carissima persona, che era stata appena ricoverata. Fra i tanti orrori del manicomio vidi questi bagni con le porte basse, che mi parvero simili alle porte di un saloon, come si vedevano nei film.
Fu uno shock…mi colpirono tanto che rimasero nei miei sogni ricorrenti per anni, simbolo di bisogni che non potevano essere soddisfatti.