Cielo azzurro.
C’è un sole caldissimo in cielo.
Fa caldo.
Perché il cielo sopra Milano ha sempre qualcosa in più.
Suono il citofono.
Emozionato.
Entro in ascensore sapendo di incontrare una persona importante. Molto importante.
“Buongiorno” e gli do la mano.
Mani solide. Mani che hanno vissuto.
Perché le rughe sono espressioni artistiche dei ricordi.
E fra quei segno potevo immaginarmi il manicomio.
Quello vero che aveva visto nel 1969 quando, in compagnia di Carla Cerati e della sua macchina fotografica, immortalava scene drammatiche che poi si trasformeranno nel libro denuncia MORIRE DI CLASSE.
La fotografia come arma di rivoluzione: fermare tutti quegli attimi che sono in grado di accendere una miccia nel nostro cervello.
Perché la fotografia ha ancora la forza di smuovere le masse.
Di accendere gli animi.
Di creare rivoluzioni.
Signore e Signori, vi presento Gianni Berengo Gardin, uno dei più importanti fotoreporter italiani.
È stata una chiacchierata sciolta, informale, come se fossimo due amici che non si rivedono da tanto tempo.
Una chiacchierata che è iniziata dai manicomi e si è conclusa sulla cultura del mondo d’oggi. Perché “cultura” e “manicomio” sono parole legate da un sottile filo invisibile ma incredibilmente pesante.
Ma fra tutte le domande che ho rivolto a Gianni, mi voglio soffermare su una in particolare:
È possibile fare una rivoluzione con la fotografia?
Era il 1969 quando vide la luce Morire di classe, il libro fotografico che mostrò per la prima volta l’orrore dei manicomi e nessuno si sarebbe mai immaginato che quella pubblicazione potesse essere un elemento importantissimo nel loro stesso superamento.
Quegli scatti in un bianco e nero ruvido che raffiguravano persone legate al letto, donne dietro le sbarre, umanità perduta nella paura e nell’indifferenza fecero breccia nell’immaginario collettivo, mettendo davanti agli occhi un problema che fino a quel momento era conosciuto soltanto attraverso i racconti.
MORIRE DI CLASSE ha riversato in faccia quello che si nascondeva dietro le parole contenzione, reclusione, manicomio: persone ridotte come moderni fantasmi all’interno del nostro contesto sociale.
Le parole sono in grado di generare immagini. Le fotografie ci possono confermare la nostra immaginazione. E spesso superarla.
Perché qualsiasi immaginazione è frutto delle realtà che abbiamo vissuto. E il manicomio, fino a quel momento, era solo territorio per gli addetti ai lavori.
La fotografia fu in grado di creare una rivoluzione, fu in grado di portare quel mondo dentro l’immaginazione di tutti.
Perché questo fa una Rivoluzione culturale: accende una miccia nella coscienza collettiva e rende chiunque parte essenziale di un grande mosaico di cambiamento.
Chi fa una Rivoluzione non è mai al corrente della conseguenza della sua opera: si trova a scattare guidato dalla necessità di raccontare, vivendo in prima persona le emozioni a cui assiste.
Perché noi possiamo comunicare solo le emozioni che viviamo.
Rivoluzione vuol dire scontrarsi con il potere, contro un modo di pensare che è accettato collettivamente senza nessun beneficio del dubbio. E la differenza sta esattamente in quella crepa che un racconto va a scavare proprio dentro il nostro immaginario: se è in gradio di mettere in discussione anche un solo concetto che stiamo accettando passivamente, il processo di Rivoluzione è grà iniziato.
E non si può più tornare allo stadio precedente.
E quindi…È possibile fare una rivoluzione con la fotografia?
Assolutamente si. E oggi, come allora, portare alla luce storie è più che mai importante.
Sono d’accordo con Gianni nel confermare la difficoltà di creare queste “fratture” nell’immaginario collettivo, specialmente nella generazione attuale.
Oggi siamo bombardati da una quantità impressionante di materiale visivo, una quantità di immagini bombardano il nostro cervello decine di volte al giorno. Ma nonostante questo, la fotografia è ancora in grado di ritagliarsi una grossa fetta di comunicazione.
Viviamo con più intensità possibile le emozioni che vogliamo raccontare.
Mettiamo da parte la paura di quello che non conosciamo e abbandoniamoci dentro.
Perché qualsiasi racconto è frutto delle realtà e delle emozioni che abbiamo avuto il coraggio di vivere.
Buon ascolto dell’intervista.