“tocca ‘l mùr tocca ‘l mùr”
si poteva udire sotto il reparto maschile del manicomio San Benedetto di Pesaro.
Tocca il muro. Una singolare richiesta.
Usare il tatto per capire il manicomio. Toccare con i polpastrelli l’intonaco della parete esterna, come se i residui che si fossero incastrati fra le nostre dita custodissero qualcosa di speciale.
Tocca il muro, diceva. Perché il tatto è la forma massima di connessione umana: accorciamo le distanze.
Entriamo in contatto fisico. Chimica delle relazioni.
E in quella richiesta il desiderio di connessione: se non vuoi vederlo o ascoltarlo, prova almeno a toccalo. Le mani non mentono mai. Toccare una parete di un luogo vuol dire accarezzare il suo passato. Perché la nostra vita rimane impressa negli spazi che abitiamo.
E il nostro cuore questo lo sa.
E ascolta storie che non possono essere udite da orecchio umano perché non fatte di suoni. Ma fatte di emozioni, lacrime e desideri.
Tocca il muro. Vieni a scoprire chi siamo. Vivi il manicomio. Almeno per una manciata di secondi. Il tempo di appoggiare la mano sul freddo muro. Freddo. Proprio come il silenzio.
Tocca il muro, per accarezzare le centinaia di persone che non possono ricevere una vera carezza da chi amano. Toccale per far sapere loro di non avere paura. Perché l’esclusione non è contagiosa, e se lo fosse, non si diffonderebbe con il tatto.
Ma non tutti la pensavano così. Alcuni facevano finta di non sentire. Perché chi non ha il coraggio di dare una carezza è già intrappolato dalla solitudine, e non vuole guardarsi allo specchio.
Apro gli occhi, sopra di me il cielo celeste. E davanti a me il giardino del San Benedetto di Pesaro. Cullato dal silenzio degli uomini e dall’armonia della natura. Passeggio in silenzio calpestando il verde prato e mi accorgo, quasi inconsapevolmente, di essere circondato da alcune panchine. Mi fermo ad ascoltare il niente. Perché le storie che non possono essere udite da orecchio umano non sono fatte di suoni ma parlano direttamente alla nostra anima.
E trovano le risposte. Perché dentro di noi abbiamo sempre tutte le risposte di cui abbiamo bisogno. Ma quello che manca a volte è il coraggio di ascoltarle.
Guardo quelle panchine vuote. Lo sguardo sulla pietra, ormai schiacciata dalla natura, per immaginare i pazienti che un tempo vi stavano sedute sopra.
Dentro quel silenzio immagini di persone: chi ci appoggiava sopra le mani per guardare il cielo e chi vi stava sdraiato per riposare. Immagino chi, stando seduto, teneva i gomiti sopra le ginocchia per reggersi la testa. E non guardare.
Immagino sguardi che si incrociano, mani che si toccano, parole che arrivano nelle orecchie. Immagino racconti. Emozioni. Risate. Pianti. Desideri e speranze.
Le panchine sono qualcosa di più di un semplice arredo: sono punti che collegano individui, testimoni unici di storie che non potranno più essere raccontate, spettatori di sogni, compagni della nostra disperazione.
Rimango colpito dall’avanzare della natura, che piano piano sta riprendendo il suo posto, e che avrebbe cancellato per sempre quello che queste panchine avevano vissuto.
Scatto. Perché voglio collezionare ritratti di panchine. Perché se nel silenzio ci sono messaggi che solo il nostro cuore può ascoltare, nelle assenze ci sono immagini che solo i nostri sentimenti possono vedere.
Scatto per immaginare queste persone. Per ricostruire i racconti che hanno vissuto.
Collezionare ritratti di silenzio. Con dentro emozioni umane.
Perché le panchine sono qualcosa di più di un semplice arredo.
Collegano individui ed emozioni. Proprio come toccare un muro con le nostre mani.
Cosa avranno ascoltato queste panchine?
C’era il Batuscio (una porta) che esteticamente era camuffato da parete muraria con effetto bugnato che si apriva per portare dentro il paziente quando non potevano farlo passare dalla porta principale. Una realtà distorta. Inevitabile in manicomio. Perché sono le persone che fanno la differenza. Gli spazi prendono la forma da quello che fanno le persone che li abitano.
Eteree le storie vagano. Si mischiano con l’ossigeno che respiriamo, riuscendo così ad uscire dalle mura dei padiglioni. Cassa di risonanza esistenziale. E la notte, i messaggi inascoltati, corrono a mischiarsi con i sogni delle persone del vicinato. Nonostante la distanza, il padiglione agitati generava urla capaci di svegliare che viveva di fronte al recinto. E si svegliavano tristi.
Perché partecipare alla sofferenza ci macchia l’anima. E quel dolore che proviamo è solo empatia. È desiderare che la sofferenza altrui finisca. È collegarsi.
Perché dentro un grido c’è un rumore che arriva alle orecchie e una richiesta che arriva al cuore.
Mura che raccontano e silenzi che ascoltano. Come la scritta in tedesco presente sul bugnato piatto di una delle colonne di facciata (chiamate piedritti): PSYCHIATRISCHES KRANKENHAUS IRRENANSTALT. Non è chiaro quando fu scritta questa frase, se durante un’occupazione tedesca o per una collaborazione con l’Austria, ma è chiaro cosa suscitava in chi la guardava: terrore. Perché ciò che non comprendiamo ci spaventa.
E ciò che ci spaventa lo combattiamo. Rendendo così impossibile qualsiasi forma di scoperta, qualsiasi superamento. Ciò che non conosciamo viene colmato da ciò che temiamo. Sempre.
Ma in questi ritratti di silenzio c’è spazio anche per storie di figli di chi viveva dentro il manicomio: figli di pazienti e dottori.
Brandelli di memoria. Indelebili nel tempo perché capaci di edificare comportamenti futuri. Il figlio del dottore si ricorda in pantaloncini nel cortile del manicomio, in attesa del padre che uscisse per portarlo a casa. Mi immagino un bambino curioso e vivace che deve stare fermo ad aspettare suo padre. Mi immagino lo sguardo fisso sul portone principale. Non andare in giro e aspetta tuo padre. Aspetta fermo e basta. Occhi sgranati, cuore che batte ma che dentro ha una gran voglia di scoperta. Sguardo fisso. E fremito di scoperta e di gioco.
Ma la compagnia non tarda ad arrivare: un paziente, tranquillo, si avvicina per fargli compagnia. Immagino i loro sguardi. Immagino lo sguardo innocente di un bambino, ancora non inquinato dallo stigma e dalla paura, che vede un uomo davanti a sé. Non un escluso. Immagino gli occhi del paziente che lo intratteneva, che vedeva davanti a sé il futuro, le nuove generazioni, e in cuor suo, nell’innocenza di un bambino, sentiva che il mondo non era un posto malvagio. Perché la paura delle persone non è nella nostra natura. La apprendiamo quando smettiamo di scoprire gli uomini. Quando smettiamo di meravigliarci. Di sorprenderci. Di emozionarci dietro a uno sguardo, dietro a un sorriso.
E negli sguardi di queste due persone c’era Vita. Quella che tutta la solitudine del mondo non potrà mai cancellare.
E gli occhi di quel bambino vedono arrivare una madre con una bambina. I loro sguardi si incrociano. Cosa possono comunicare gli occhi di due bambini la prima volta che si vedono?
Mamma e figlia entrano dentro il reparto. Vanno a trovare il padre. Il bambino le segue con lo sguardo. E prima di varcare la soglia del padiglione la bambina si volta, perché i bambini non hanno paura di ciò che si lasciano alle spalle.
Entrano dentro e la figlia incontrano suo padre. E lui scoppia in lacrime. Prende la sigaretta e se la spegne nella tasca della giacca. E vede l’impossibilità di vivere quello che aveva creato.
Un pianto di sconfitta, di un’umanità che parla al cuore di chi riesce ad aprirsi, ma che si disperde in chi ha paura del diverso. Immagino le mani tremule di lui che, chinandosi, cerca di avvicinarle al volto della piccola.
Toccare. Accorciare le distanze. Entrare in contatto fisico. Chimica delle relazioni. Antidoto all’esclusione.
Individui che parlano il linguaggio del dolore, che parlano una lingua a volte incomprensibile agli adulti. Puzza di nicotina e solitudine. Poi si sentono dei passi che si fanno più vicini. Sempre più vicini. Entra nella stanza un medico, tira fuori la doppia chiave e la passa sulle sponde del letto generando un suono ripetuto fastidioso simile ad una mitragliata. Comunicazione non verbale. Anche senza l’uso della parola siamo in grado di mandare messaggi fortissimi.
Lacrime e crepitii. Storie narrate senza parole. Musicalità dell’esclusione.
Quel crepitio indica l’ora di uscita.
La madre allontana la figlia e si dirigono verso l’uscita del padiglione.
La figlia si volta a guardare il padre incorniciato dalla stanza che si stava allontanando.
Che si fa più piccolo. E il suono del pianto diventa sempre più basso.
Ed escono fuori tenendosi per mano.
E la bambina incrocia per l’ultima volta lo sguardo con il bambino, per raccontargli quello che i suoi occhi avevano visto.
E si allontanano.
Poi il bambino guarda il suo amico paziente.
Come per raccontare con un solo sguardo quello che la bambina le aveva detto.
E poi esce il medico, quello che aveva passato le doppie chiavi sulla sponda del letto.
E si avvicina al bambino.
Lo prende per mano per andare a casa.
E si guardano negli occhi.
Per dirsi cose che le orecchie non possono ascoltare.
Per raccontarsi scene che gli occhi non possono vedere.
Perché negli sguardi delle persone c’è Vita. Quella che tutta la solitudine del mondo non potrà mai cancellare.
Gli aneddoti raccontati in questo post sono estrapolati da memorie orali del manicomio San Benedetto di Pesaro, gentilmente fornite dall’Associazione Quatermass-x