Anno 2017.
L’ultimo paziente dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino lascia la struttura e si conclude così l’era degli OPG. Il cancello si chiude. Per l’ultima volta.
Si sarà voltato indietro l’ultimo detenuto dell’OPG mentre varcava la soglia di uscita?
Fa caldo fuori, cielo celeste, giornata di primavera anche se siamo a Febbraio. Cammino spedito nel lungo il viale che porta alla maestosa Villa Ambrogiana. Ne intravedo le sue torri. Ne immagino la sua maestosità.
Sono all’ingresso e davanti a me il pannello in pietra dove si vedono chiaramente i segni lasciati dalle lettere che vi erano applicate: OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO.
Cicatrici. Di quelle parole sono rimaste solo le cicatrici, perchè possiamo rimuovere le parole ma mai quello che queste hanno generato. Come se gli sguardi fossero stati in grado di consumare la forma di quelle lettere. Ma gli occhi non possono erodere. Gli occhi possono solo mostrarci la realtà.
Seguo con lo sguardo il perimetro di ogni lettera. Prima la O, poi la S e avanti fino all’ultima lettera di OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO.
Sono di fronte al primo OPG che è stato aperto in Italia e anche all’ultimo che è stato chiuso.
“Questo luogo ha conosciuto solo dolore. Nel passato vi erano i monaci che si infliggevano punizioni corporali”
Non mi sono mai tolto dalla testa queste parole che il Proposto di Capalle mi raccontò anni fa perché, precedentemente, era stato il parroco dell’Ospedale. E quel luogo, infinitamente interessante dal punto di vista storico, lo portò a documentarsi sul suo passato. Pareti che hanno conosciuto solo dolore per molti, moltissimi, forse troppi anni. E fra poco vedrò da vicino anch’io queste dolorose pareti.
Si respirava l’aria del vecchio manicomio, pregna di silenzio e di pareti color verde. Il Verde, sempre quello.
Per la cromoterapia il verde è sinonimo di armonia ma fra le pareti di questa struttura l’armonia poteva solo essere immaginata. Cammino dentro quel silenzio, fra polvere e riproduzioni della villa su ceramica.
Scatto. Mi muovo fra un silenzio talmente assordante che solo l’ultimo manicomio criminale d’Italia riesce a creare. Vedo le stanze, minuscole e con il bagno al suo interno. Scatto. Penso all’isolamento.
Gli occhi non possono erodere. Gli occhi possono solo mostrarci la realtà. Anche quella che non vogliamo vedere.
Cammino e mi immagino i passi dei pazienti. Mi immagino le loro lacrime, il rumore pesante dei lori piedi, come se per camminare dovessero maltrattare la suola delle loro scarpe. Immagino le grida, quel dolore che per quanto possa uscire forte dai polmoni non sarà mai abbastanza per essere ascoltato. Interpretato. Capito. Compreso.
Immagino le richieste, il passato di queste persone, le loro storie. Dettagli che sono difficili anche da immaginare. E in mezzo a questi brandelli di pensiero, la mia immaginazione viene squarciata da un rumore deciso: mi immagino il suono del flagello contro la schiena nuda di un monaco. E prende vita un contrasto, il contrasto tipico del manicomio: il raccoglimento della preghiera squarciato del rumore della punizione, le grida dei pazienti soffocate del silenzio delle persone, le presenza di questi uomini cancellata dalla memoria del mondo.
Cammino e vedo uno spazio per giocare a calcio, oltrepasso corridoi spenti. Oltrepasso bagni silenziosi.
Oltrepasso le architetture dell’esclusione, il linguaggio universale del mondo manicomiale.
Vedo una camera mortuaria e mi immagino le persone che finivano là dentro. Si sarà voltata indietro l’ultima persona che ha portato qua dentro l’ultimo cadavere? Scatto pensando che quella stanza era l’ultimo spazio di detenzione di queste persone. L’ultima cella. E dopo l’aldilà.
Non riesco a descrivere la sensazione di fronte a questa scena: che nome possano dare a quella cosa che ti stringe la gola e lo stomaco ma che allo stesso tempo ti alleggerisce il pensiero? Perché davanti a me c’era il luogo dove finivano tutte le sofferenze. Capitolo finito. Senza riscatto.
Che nome diamo a quella sensazione che ci prende quando, arrivato alla fine di un libro, ci accorgiamo che l’ultima pagina è stata strappata e non lo possiamo più concludere?
Capitolo finito. Senza il finale desiderato dal protagonista.
“Adesso andiamo nello spazio nuovo, questa è la parte vecchia”.
Si apre di fronte a me una grande cancellata e mi trovo dentro uno spazio di detenzione totale.
Recinzioni. Sbarre. Spazi chiusi. Carcere. Emozioni nuove.
Trovo un campo di calcio, entro dentro e rimango colpito ancora una volta dal contrasto: sul manto verde, le linee bianche delle regole calcistiche che ci sono disegnate sopra, sono sovrastate dalle rigide linee delle mura di recinzione del carcere. Il tutto che contrasta con l’astrattismo completo delle nuvole del cielo. Linee contro curve.
Perché la natura crea gli spazi ma l’uomo crea le barriere.
“Noi giocavamo a calcio in un campo qua vicino” mi ha detto la guida che mi ha accompagnato “mi ricordo che sentivamo le grida di questo posto”.
Immagino i giovani che correvano dietro alla palla, lo sguardo concentrato, solido, che di punto in bianco viene catapultato nella parte più cupa dell’immaginazione dopo il primo grido.
Il dolore non lo puoi nascondere. Lo devi conoscere e comprendere ma non lo puoi nascondere. Perché troverà sempre il modo per dirti “io esisto”.
Si sarà mai voltato indietro l’ultimo calciatore che ha ascoltato l’ultimo grido dell’OPG?
Entriamo dentro la struttura principale, mi accompagnano a vedere le celle. Pavimento elegante. Struttura pulita, soffitti con travi a vista. E silenzio. Ma un silenzio più caldo dell’altro. Sarà perché la solitudine non è riuscita a soffocare la presenza umana del tutto?
Entro in una cella e trovo delle scritte sul muro. E le mie mani iniziano a tremare. In questo silenzio si respira l’uomo, lo si sente benissimo. E inizio ad avere una certa “fame” di immagini. Vedo le loro scritte sul muro e mi accorgo di essere un testimone delle loro emozioni, dei loro desideri, della loro rabbia.
Nel silenzio di queste celle mi sono trovato di fronte a un calore umano mai percepito prima.
Nel contrasto fra il pavimento curato e i segni dei calci sul muro, fra il soffitto con le travi a vista e le porte in legno con i segni dei pugni, fra il bianco delle pareti e il residuo di un qualcosa, probabilmente del cibo, lanciato contro la porta, mi trovo di fronte a una grandissima espressione di umanità: messaggi di un’umanità invisibile.
Scatto per salvare gli ultimi desideri di queste persone, per salvare la testimonianza della loro esistenza, per salvare il loro messaggio. Le mani tremano per colpa del silenzio.
Tutti noi abbiamo paura del silenzio. Lo temiamo per quello che ci può dire, perché è l’unico in grado di farci parlare con noi stessi. Lo temiamo per le risposte che ci può dare. Le temiamo perché ci fa scoprire la nostra strada. E spesso è proprio quella che ci fa paura. Quello che scopri di te stesso nel silenzio non lo puoi nascondere. Lo devi conoscere e comprendere ma non lo puoi nascondere.
Perché troverà sempre il modo per dirti “io esisto”. Proprio come il dolore.
Fotografavo persone. Invisibili. Presenze abrasive che ci colpiscono dritte all’anima. Salvavo storie dall’oblio. Salvavo racconti dal silenzio. E provavo emozioni mai percepite prima.
Salvare storie umane per creare domande. Pensieri. Identità. Immaginavo volti scavati dal dolore, rugosi con la barba incolta e gli occhi arrossati dal fumo di sigaretta che lasciavano sul muro la testimonianza della loro presenza. Perché il silenzio ti racconta anche questo. Storie di persone invisibili.
Un qualcosa di indelebile mi accompagna fra le celle.
Scatto, famelico. Ritratti invisibili di umanità che non puoi ascoltare ma solo leggere.
Alfabeto del silenzio. Grammatica dell’esclusione.
Concludo le celle e mi accompagnano fuori, verso l’uscita.
Ma poco prima del cancello passo davanti a un piccolo parco giochi, vicino allo spazio per gli incontri.
Scivoli e altalena recintati da una rete. Immagino i bambini che salgono le scalette ignari del mondo che avevano intorno. La leggerezza dei bambini dentro un grandissimo spazio di reclusione. E penso all’ultimo bambino che è salito su sull’altalena. Si sarà voltato indietro l’ultimo bambino che ha messo piede qua dentro quando è stato portato via da sua madre?
Sto per varcare la soglia di uscita e io mi volto indietro. Perché voltarsi indietro vuol dire regalare un ultimo sguardo. Un ultimo pensiero. Vuol dire “se questa è l’ultima volta che ti posso vedere voglio vederti fino alla fine”.
Mi sono voltato commosso, con i brividi ad immaginarmi le persone che usano il cielo come un ponte dei desideri per arrivare alla persona che amano. Alla famiglia. A casa.
Mi sono voltato perché queste immagini non volevo perderle.
Mi sono voltato per non perdere quel macigno emotivo che questo posto è stato capace di offrirmi.
Mi sono voltato per guardare l’ultima volta l’ultimo OPG d’Italia, e voglio vederlo fino alla fine.
Mi sono voltato per una infinita varietà di motivi.
Mi sono voltato.
5 commenti su “L’ultimo manicomio criminale”
Una bellissima testimonianza. Grazie.
Testimonianza da brividi racconto di una esperienza drammatica in condizioni raccapriccianti mi piacerebbe visitare uno di quei posti per rendermi conto più di persona che tipo di luoghi erano
Purtroppo sono luoghi molto complessi da visitare Marcello, io ho aspettato 3 anni per avere il permesso di fotografare questo OPG. Ma puoi starne certo che se ci fosse una reale possibilità di visita pubblica, sarai assolutamente avvisato.
Questi luoghi hanno una carica emotiva incredibile. E, sinceramente, mi hanno cambiato il modo di vedere e cercare le cose.
Grazie per il commento caro, a presto
impressionante.. vorrei tento sapere se sara possibile un giorno visitarlo… impressionante
Carissima Mascia, purtroppo ancora non so risponderti a questa domanda.
Mi auguro che la memoria storica di questi luoghi sia tutelata per le generazioni future.
Grazie di cuore per la lettura. A presto