È la prima volta che entro dentro il manicomio di Genova Quarto e già mi accorgo di essere dentro un luogo speciale. Fra le scritte di Melina Riccio e i capolavori di Art Brut conservati, io non respiro l’aria di manicomio.
Respiro il superamento. Sento l’unità. Vivo la collettività.
Cammino fra i vecchi portici del manicomio, unica testimonianza di quel periodo di dolore e reclusione, mi accompagnano a vedere il laboratorio di ceramica dove si fanno corsi aperti a tutti. Perchè a volte le rivoluzioni partono proprio dalle parole: non si creano distinzioni fra le persone, non ci sono “utenti” e “normali”, ci sono persone. Ci sono “tutti”.
Vedo persone sorridenti, vedo energia ovunque. Sensazione incredibile.
Mi accompagnano all’IMFI, Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli, e scopro un patrimonio artistico che mi lascia letteralmente senza parole. Arte ed energia ovunque. La sensazione più bella che abbia mai percepito dentro un manicomio.
E prima di fermarmi a parlare con il loro presidente e anche mio accompagnatore, Gian Franco Vendemiati, mi fermo di fronte a una cassetta di frutta.
“Di questa dovresti conoscere l’autore. Sai chi è? È Galati” Mi dice Gian Franco.
Bruno Galati. Mani d’artista che hanno contribuito al Presepe del manicomio di Cogoleto, perchè Quarto e Cogoleto sono due realtà legate in un modo indissolubile fra loro.
Entro nella stanza del nostro incontro. Mi siedo. Prendo il blocco per appuntarmi passaggi di memoria orale che non possono andare perduti e inizio ad ascoltare.
“Mi ricordo che quella era la mia prima volta che entravo in una manicomio. Varcai la soglia del cancello, c’era una festa dentro. Dopo alcuni passi nel cortile, fra il frastuono festoso delle persone, sentii chiamare il mio nome.
E poi di nuovo. Da una voce diversa.
E poi ancora.
Ma io quelle voci le conoscevo.
Mi voltai e li trovai intorno a me: erano quattro miei amici che avevano lavorato con me in fabbrica.
La fabbrica del movimento operaio.
La fabbrica che gli ha mandati in manicomio”.
Rimango paralizzato da questo racconto e, mentre le parole escono dal mio accompagnatore, non riesco a non notare quegli occhi carichi di emozione. Carichi di passione.
Occhi che hanno visto il dolore, ma anche l’orgoglio della lotta.
La fabbrica era il suo passato, un luogo dove il ritmo serrato e la necessità di produrre a velocità sempre più elevata poteva creare degli “effetti collaterali” come “la follia”.
Operai deboli rimasti schiacciati dal meccanismo della produzione.
“Scusami, ti posso fare un ritratto? Non ti muovere, voglio catturare questa tua espressione.”
Non posso non notare quegli occhi carichi di emozione. Carichi di passione.
Occhi che hanno visto il dolore, ma anche l’orgoglio della lotta.
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E quella vita vissuta è rimasta impressa lì. Nello sguardo fiero di chi non si è arreso.
“Anch’io ero dentro quel meccanismo. Produzione. La fabbrica generava alienazione, faceva in modo di tenerti sempre lì, inchiodato alla produzione. Senza rendertene conto. Anch’io vivevo in quel clima poi mi è accaduto questo e mi sono risvegliato”. E mi mostra una falange ferita.
Incidente di fabbrica.
È la stessa cosa che è accaduta al protagonista del film La classe operaia va in paradiso, mi dice.
E dopo l’incidente il ritmo rallentato. La presa di coscienza del ritmo folle della produzione industriale.
Perchè a volte è necessario un incidente per avere il coraggio di cambiare?
Nei suoi racconti entrano in parallelo 2 forme di alienazione, quella del manicomio e quella della fabbrica.
Questi due ambienti, che apparentemente possono essere considerati all’opposto, hanno alcuni aspetti simili: se nel manicomio le persone erano considerato su un livello diverso, in una fabbrica dedita alla grande produttività le persone si trasformavano lentamente in “estensioni” della macchina, dove un movimento meccanico viene ripetuto per un numero tanto esasperante di volte da far quasi perdere il senso del gesto.
La catena di montaggio, il tempio della produttività, minimizzava le relazioni fra persone, isolando tutti gli individui per inseguire il miglior tempo di produzione.
Clic. Movimento. Più rapido. Clic. Più rapido. Clic. Più rapido.
E il classismo? L’eterna lotta fra operaio e padrone, fra la periferie e i centri delle città. Fra chi ha e chi non ha. Fra il il sano e il malato. Una lotta silenziosa che ci ha accompagnato per talmente tanti anni da non capire più alla fine chi stesse combattendo cosa. Ma io in quegli occhi vedevo una risposta.
In quegli occhi capivo chi era il nemico da combattere.
Le persone come Gian Franco combattevano contro tutto ciò che allontanavano l’uomo dall’essere umano: tutto ciò che creava disparità, dall’alienazione in fabbrica a quella delle corsie del manicomio, erano cose da combattere per restituire all’uomo il ruolo di essere umano.
Perchè chi combatte per le persone ha uno sguardo diverso.
Occhi che soffrono quando si ricordano quello che hanno visto e che si emozionano quando ti raccontano di altri sguardi gioiosi ed emozionati che hanno incrociato.
Sono sguardi malinconici, di chi non abbandona i sogni e di chi combatte per avere in cambio anche soltanto un sorriso, un abbraccio e magari qualche lacrima di gioia.
E dietro quegli occhi, un uomo che ti fa sentire protetto perchè la sensazione di gratitudine di chi è riuscito ad aiutare qualche anima umana permane nel tempo.
“Adesso ti voglio mostrare questa cosa, penso tu non l’abbia mai vista”.
E mi mette davanti a me un grande album fotografico con una festa dentro il manicomio di Cogoleto.
Quarto e Cogoleto. Due realtà legate in un modo indissolubile fra loro.
Vedo la gioia negli occhi delle persone, vedo colori, sorrisi. Lo spazio del manicomio invaso dalla vita. Respiro la loro gioia e penso a come lo stigma possa essere tornato prepotentemente dentro il nostro tempo dopo situazioni come quelle degli scatti che mi sta mostrando.
Perchè se in quegli anni siamo riusciti ad entrare dentro quegli spazi a liberare le persone recluse, oggi assistiamo ad un ritorno della paura? Che quella rivoluzione culturale si sia scontrata contro qualcosa capace di innescare di nuovo il meccanismo dello stigma?
Perchè abbiamo barattato la nostra empatia del vivere le collettività con un’individualità silenziosa e timorosa di tutto quello che in qualche modo è diverso da noi?
Qual è stato il punto in cui la diversità, da risorsa, si è trasformata in minaccia?
Non so darmi una risposta a queste domande ma nello sguardo di Gian Franco ho capito che chi combatte per le persone acquista uno sguardo diverso.
E questa è una delle tante diversità che dobbiamo assolutamente difendere.
Questo post è dedicato alla memoria di Gian Franco Vendemiati, scomparso il 12 Maggio del 2018.
A 40 anni dalla legge 180.
Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.
(Bertolt Brecht)
2 commenti su “Follia di classe”
Bello. E significativo nel coniugare emozione e riflessione.
Grazie caro Vendemmiati per avermi fatto conoscere la purezza del credere, senza ambizioni, senza interessi nascosti. Pochi sono gli uomini come te. Rimarrai sempre nei miei ricordi.
Liliana