“Riesci a immaginare il silenzio? Il silenzio tipico della preghiera, della dedizione, della fede.
Immagina quel silenzio dilaniato dalle grida dei pazzi”.
Chiudo gli occhi e cerco d’immaginarmi la scena: il rumore dei passi dei monaci, lo sfregare della tonaca appena le dita della mano destra toccano la fronte accompagnate da un silenzioso “nel nome del Padre…” e quelle preghiere, quasi impercettibili, mormorate dai monaci di clausura che popolavano la maestosa Certosa di Collegno.
In un attimo un grido, di rabbia. Di sofferenza. E tutto si destabilizza. Irreversibilmente.
E tutto perde senso per acquistarne uno nuovo: il manicomio.
Immagino i volti dei monaci. Completamente spiazzati di fronte a quei suoni di dolore di questi nuovi ospiti. Entrambe subivano il manicomio: il paziente che era rinchiuso e il monaco che vedeva perdersi il suo isolamento mistico. Uno squarcio nella loro vita.
La Certosa ospitò i primi pazienti alla fine dell’Ottocento per poi trasformarsi in quello che si considera fra i manicomi più importanti in Italia.
Clausura. La reclusione mistica aveva aperto le porte a quella sociale. Perché, agli occhi del mondo fuori delle mura, l’isolamento che si perpetrava al suo interno era un ottimo punto di partenza per l’isolamento sociale.
Da Certosa a Manicomio. È come se la solitudine di questi luoghi avesse fornito la soluzione per l’isolamento degli alienati.
“Sebbene la costruzione della Certosa venne ufficialmente avviata nel 1648, la cronica carenza di fondi legata al complesso vedrà raggiungere la fisionomia tipica del monastero certosino solo nel Settecento, con l’edificazione di chiesa conventuale, chiostro minore e locali ad essi appartenenti (conclusi entro il 1714) e, poi, con la realizzazione del claustrum magnum e delle singole celle dei monaci nella fase compresa fra 1719 e 1725. L’ingresso principale, che completa l’iter costruttivo del complesso monastico, è segnato dal portale monumentale, disegnato da Filippo Juvarra e inaugurato nel 1736: un accesso aulico, maestoso, cornice perfetta per l’arrivo di quei pochi, prestigiosi ospiti del complesso (i Savoia, in primis, ma anche altri prelati e nobili visitatori) poi sostituiti dai ricoverati dell’ospedale psichiatrico.”
Le minuziose e dettagliate parole della guida creano un forte collegamento con il passato. Ascolto e immagino quello che era prima di diventare manicomio. Le parole come legame indissolubile con la storia. Le parole come legame indissolubile fra le persone. Ma nel manicomio non si creano legami. Si crea isolamento.
In questo, diventato famoso in tutto il paese per la vicenda dello Smemorato di Collegno, si parla la stessa lingua degli altri manicomi: reclusione.
E ben presto il loggiato, dove sto camminando, vide man mano scomparire la presenza di monaci, sostituiti dai pazzi, e con loro scomparì pure il silenzio per far spazio ad un’altra forma di silenzio: quello della coscienza. Mi faccio raccontare le storie che hanno vissuto queste mura. Entriamo nei padiglioni 12 e 13, gli unici non riconvertiti dopo la sua chiusura.
E ritrovo ancora il silenzio, ormai indelebile dalle mura manicomiali. Polvere e silenzio. Solo polvere e silenzio. Ma non è proprio quando ci troviamo di fronte al silenzio che spesso ci sono messaggi che le parole non sono in grado di esprimere?
Ritrovo le finestre con lo spioncino, i disegni dei bambini fatti sulle pareti di un corridoio, una scarpa bianca su una rampa di scale con barriere per ogni piano per evitare i suicidi. E dentro queste scene i racconti di queste persone, dei loro dolori, delle speranze racchiuse dentro i colori delle figure sui corridoi del padiglione 12, tutti i volti che sono stati visto da dietro un foro della loro porta di reclusione.
Tutti i passi camminati da quella scarpa e tutti i luoghi dove avrebbe voluto camminare. Tutta l’innocenza del viaggio che si nasconde dentro ai tratti di un pennello guidato dalle mani di un bambino.
Ma non è proprio quando ci troviamo di fronte a questo silenzio che i racconti si esprimono in un modo che le parole non sono in grado di fare?
Mi fermo a guardare una porta con lo spioncino. Scatto. E penso a quanto possa essere misera la vita attraverso quel foro. Unico spiraglio di collegamento con il mondo. Quanto possa essere doloroso immaginare il mondo attraverso quel foro. Sono queste le storie del manicomio che ti si incollano sulla pelle e che fanno prendere una sapore diverso alla polvere e al silenzio che incontriamo.
“C’è ancora un’altra cosa da vedere. E di sotto. I sotterranei…”
E scendo nel buio. Nel freddo. Dove gli unici rumori che sentiamo sono quelli delle gocce d’acqua che cadono per terra. La nostra guida apre una porta e mi trovo di fronte ad una scena che lascia senza il fiato: una serie di botti enormi. Quella era la stanza dove lavoravano il vino. Scatto. E trovo vecchie damigiane e fiaschi. E con loro un pezzo indelebile di storia.
Andiamo fuori e la mia guida mi porta a vedere il meraviglioso spazio verde nel quale sono ancora immersi molti padiglioni e molte “ville” del manicomio: l’abbattimento del muro, ha restituito questo meraviglioso parco pubblico alla collettività, e lo ha intitolato alla memoria del Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un parco ricco di movimento. Ricco di vita.
Ma non è forse l’unico modo per scacciare il dolore quello far crescere l’amore?
E vediamo ragazzi che corrono, adulti che fanno jogging, famiglie in giro, mani che si sfiorano, occhi che si parlano. E a volte si amano.
Cammino circondato da tutta questa splendida vita fino a che la mia guida si ferma:
“Eccolo. Questo è il padiglione 21″.
Un monolito squadrato, oggi centro sociale occupato, grigio e duro. Il padiglione 21. Quello dedicato ai pazzi criminali.
La voce della guida inizia a parlare e quell’immagine davanti a me cambia forma:
Siamo nel 1912. Esattamente nel Luglio del 1912 e, per la durata di una sola notte, questo luogo è stato protagonista della prima rivolta dei pazienti contro il personale infermieristico.
Una manipolo di uomini era riuscito a sottrarre una pistola agli infermieri che li sorvegliavano e ne presero in ostaggio alcuni di loro. Li portarono sul tetto. E dettarono le loro condizioni.
Volevano amnistia. Volevano condizioni migliori. Una rivolta che mirava a cambiare le regole e il comportamento che erano in vigore dentro il manicomio. Questi luoghi ospitavano persone che per molti erano “invisibili”. Dimenticate. Nessuno si batteva per loro. Non esistevano. Invisibili.
E in questo crogiolo di rivolta quello che colpisce è un particolare: i pazienti non liberarono dalle celle gli agitati. Forse perché dentro di loro non volevano una rivolta violenta?
Non furono liberati gli agitati. Ed è proprio dietro questa sottigliezza che la linea fra normalità e follia inizia a essere molto più sottile. Una rivolta violenta ma allo stesso tempo “non violenta”. Perchè, dopo tutte le violenze subite, si sono comportati come se anche loro sapessero che la violenza non potesse risolvere nessun problema. Anzi, ne creava di nuovi. E forse di peggiori.
La violenza è sempre stato il linguaggio di chi non crede nel dialogo. Di chi non crede nell’umanità. E in questo caso i pazienti del padiglione dei criminali si guardarono bene dal degenerare.
La rivolta si spense il giorno dopo. Purtroppo senza nessun esito positivo. Ma resta vivo il ricordo. Il coraggio. E la forza. Di non arrendersi. Di sperare e, soprattutto, di non cadere nello stesso linguaggio del sorvegliante.
Un gesto umano nella sua brutalità. Che mette alla luce tutte le sofferenze di queste persone e di come la violenza potesse sembrare l’unico linguaggio possibile in questi luoghi.
Ci voltiamo e continuiamo a camminare. Oltrepassiamo un muro.
Troviamo un nuovo padiglione e la guida mi dice:
“Lo sai perché è diverso questo padiglione? Oltre questo muro iniziava la parte dei ricchi”.
Gli occhi mi si sgranano. Mi sento un nodo alla gola. Un muro. Che separava i pazzi poveri dai pazzi ricchi. Posto subito dopo il padiglione 21. E mi chiedo il perché di tanta violenza.
Classismo. Che crea divari incolmabili. Stigma su stigma. Violenza su violenza.
Mi volto indietro per guardare l’altro padiglione. E mi immagino le persone sul tetto che chiedono condizioni migliori. Mi immagino le loro grida proprio di fronte al muro che gli relegava nella parte debole del mondo.
Pazzi e poveri.
Ma quelle grida sono riuscite a oltrepassare quel muro?
Hanno creato una breccia nel cuore delle persone che lo costruirono?
Classismo. Stigma su stigma. Violenza su violenza.
Quel muro era il simbolo del divario. Delle differenze.
E oggi è bellissimo poterlo attraversare a piedi. Perché è crollato.
Come tutti i muri devono fare. E con loro il messaggio che si portano dentro.
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6 commenti su “La Certosa di Collegno”
Ho adorato questo articolo,mi piacerebbe tanto fare un escursione come la tua,dato che si trova a quattro passi dalla mia università.
Grazie infinite Gabriella delle tue splendide parole, i auguro un giorno di riuscire a organizzare una visita guidata in quegli spazi, sarebbe veramente splendido anche per me poter tornare ad ammirare quella bellezza.
Se la cosa può interessarti ti chiedo d’iscriverti alla newsletter in modo da restare aggiornata su tutte el mie attività.
Grazie infinite per la lettura
Un racconto straziante e meraviglioso allo stesso tempo. Mi è sembrato di essere li, ma non alla visita guidata con te proprio li con tra gli ospiti nei primi del novecento. Grazie per le emozioni
Grazie a te Francesca delle meravigliosa parole, e per il coraggio di lasciarti andare all’emozione dentro una struttura densa di storie e racconti.
Per me è stato meraviglioso visitare e scoprire il mondo dietro la Certosa, essere riuscito a condividere le mie sensazioni è meraviglioso.
Un forte abbraccio
Grazie a te Silvia della lettura. A presto
Grazie!