E vediamo ragazzi che corrono, adulti che fanno jogging, famiglie in giro, mani che si sfiorano, occhi che si parlano. E a volte si amano.
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Cammino circondato da tutta questa splendida vita fino a che la mia guida si ferma:
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“Eccolo. Questo è il padiglione 21″.
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Un monolito squadrato, oggi centro sociale occupato, grigio e duro. Il padiglione 21. Quello dedicato ai pazzi criminali.
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La voce della guida inizia a parlare e quell’immagine davanti a me cambia forma:
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Siamo nel 1912. Esattamente nel Luglio del 1912 e, per la durata di una sola notte, questo luogo è stato protagonista della prima rivolta dei pazienti contro il personale infermieristico.
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Una manipolo di uomini era riuscito a sottrarre una pistola agli infermieri che li sorvegliavano e ne presero in ostaggio alcuni di loro. Li portarono sul tetto. E dettarono le loro condizioni.
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Volevano amnistia. Volevano condizioni migliori. Una rivolta che mirava a cambiare le regole e il comportamento che erano in vigore dentro il manicomio. Questi luoghi ospitavano persone che per molti erano “invisibili”. Dimenticate. Nessuno si batteva per loro. Non esistevano. Invisibili.
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E in questo crogiolo di rivolta quello che colpisce è un particolare: i pazienti non liberarono dalle celle gli agitati. Forse perchè dentro di loro non volevano una rivolta violenta?
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Non furono liberati gli agitati. Ed è proprio dietro questa sottigliezza che la linea fra normalità e follia inizia a essere molto più sottile. Una rivolta violenta ma allo stesso tempo “non violenta”. Perchè, dopo tutte le violenze subite, si sono comportati come se anche loro sapessero che la violenza non potesse risolvere nessun problema. Anzi, ne creava di nuovi. E forse di peggiori.
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La violenza è sempre stato il linguaggio di chi non crede nel dialogo. Di chi non crede nell’umanità. E in questo caso i pazienti del padiglione dei criminali si guardarono bene dal degenerare.
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La rivolta si spense il giorno dopo. Purtroppo senza nessun esito positivo. Ma resta vivo il ricordo. Il coraggio. E la forza. Di non arrendersi. Di sperare e, soprattutto, di non cadere nello stesso linguaggio del sorvegliante.
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Un gesto umano nella sua brutalità. Che mette alla luce tutte le sofferenze di queste persone e di come la violenza potesse sembrare l’unico linguaggio possibile in questi luoghi.
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Ci voltiamo e continuiamo a camminare. Oltrepassiamo un muro.
Troviamo un nuovo padiglione e la guida mi dice:
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“Lo sai perchè è diverso questo padiglione? Oltre questo muro iniziava la parte dei ricchi”.
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Gli occhi mi si sgranano. Mi sento un nodo alla gola. Un muro. Che separava i pazzi poveri dai pazzi ricchi. Posto subito dopo il padiglione 21. E mi chiedo il perchè di tanta violenza.
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Classismo. Che crea divari incolmabili. Stigma su stigma. Violenza su violenza.
Ma quelle grida sono riuscite a oltrepassare quel muro?
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Hanno creato una breccia nel cuore delle persone che lo costruirono?
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Classismo. Stigma su stigma. Violenza su violenza.
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Quel muro era il simbolo del divario. Delle differenze.
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E oggi e bellissimo poterlo attraversare a piedi. Perchè è crollato.
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4 commenti su “La Certosa di Collegno”
Un racconto straziante e meraviglioso allo stesso tempo. Mi è sembrato di essere li, ma non alla visita guidata con te proprio li con tra gli ospiti nei primi del novecento. Grazie per le emozioni
Grazie a te Francesca delle meravigliosa parole, e per il coraggio di lasciarti andare all’emozione dentro una struttura densa di storie e racconti.
Per me è stato meraviglioso visitare e scoprire il mondo dietro la Certosa, essere riuscito a condividere le mie sensazioni è meraviglioso.
Un forte abbraccio
Grazie a te Silvia della lettura. A presto
Grazie!