Le persone vivono attraverso i loro racconti, attraverso le sue testimonianze. Attraverso i ricordi che le altre persone hanno di loro stesse. Attraverso la scrittura. Attraverso la memoria. Perché è proprio la memoria che, con i suoi racconti e i suoi ricordi, riesce nuovamente a dar forma alle persone, che riesce a farci scoprire le loro idee, i loro pensieri, capaci di farci immaginare volti e corpi.
Oggi voglio raccontarvi una storia, la storia di una bambina piccola che camminava nella fredda montagna della Toscana, che si meravigliava dei colori dell’autunno, che passeggiava nelle strette vie del piccolo paese dove era nata.
E ogni tanto vedeva una donna adulta, di mezz’età, che fermava gli uomini per cercare di regalarli le sue creazioni: delle poesie. Gli innocenti occhi della bambina non vedevano niente di strano nei gesti di quella persona. Cosa che invece vedevano gli altri abitanti del paese.
Siamo negli anni 60. Siamo in una fredda e ruvida montagna Toscana.
Siamo nel pieno dell’era manicomiale. Un giorno quella bambina non la vide più. Perse le sue notizie.
Ricoverata in manicomio. Il linguaggio dell’epoca.
Quella bambina oggi è cresciuta ed è diventata mia madre. Ma purtroppo non ha mai messo da parte il suo ricordo del mostro del manicomio: dopo il primo parto mia madre si sentì male, problemi post gravidanza che le causavano una grande sonnolenza.
La scelta fu ridotta in un solo luogo: Ville Sbertoli, il manicomio di Pistoia. Lo stesso manicomio dove fu ricoverata la signora poeta che vedeva quando era piccola.
Mia madre non fu mai ricoverata, il medico non vide nessuna problematica che potesse giustificare un suo ricovero, ma non si è mai dimenticata di quel posto. Delle persone. Di quelle grida, capace di farci piangere solo nell’ascoltarle. E non si è mai dimenticata di quando da piccola vide venire a prendere le persone per portarle là. Nel buio. Nell’ignoranza. Nel manicomio.
Come poteva accadere tutto questo?
Il manicomio era una realtà entrata a forza nella testa delle persone. Nei luoghi solitari, freddi e duri della montagna il manicomio aveva forgiato la mentalità. Le idee. Il modo di relazionarsi. Diventava drammaticamente una giustificazione. Un rimedio. E man mano che le persone accettavano tutto questo perdevano gradualmente un pezzo di razionalità, un pezzo di umanità, un pezzo di empatia.
Il manicomio era la soluzione, accettarlo voleva dire mettere da parte il nostro lato umano.
E’ possibile barattare umanità con esclusione?
E più le persone venivano escluse, più si giustificava il manicomio, più aumentava la paura. La paura del diverso. La paura di chi e cosa non riusciamo a comprendere. E così via, in una spirale che ha creato tanti danni umani quanto culturali. Educazione manicomiale. Quella che ha portato anche la signora delle poesie fra quelle fredde mura. Perché Il concetto di manicomio si è sempre insediato nello spazio lasciato vuoto dalla comunicazione.
E’ possibile barattare comunicazione con esclusione?
Questa donna è rimasta un mistero nei ricordi di mia madre. Una figura nei suoi pensieri. Fino a quando, sistemando casa di mia nonna, dentro un vecchio cassetto trovò un foglio. All’interno una poesia di questa signora dedicata agli zii di mia madre prima della loro partenza per il Brasile come emigranti.
Non ho resistito. Ho dovuto trascriverla. Certo che le persone siano in grado di continuare a vivere attraverso i racconti che le descrivono, niente di più reale della calligrafia e del suo contenuto possono rappresentarle al meglio. Non volevo disperdere il ricordo di questa donna. Non volevo disperdere la sua comunicazione.
Mi metto a scrivere, lettera dopo lettera di quella calligrafia elegante e precisa tipica degli anni passati, e mi immagino lei intenta a consegnare le poesie ai passanti, mi immagino gli occhi carichi di speranza di chi partiva da casa alla ricerca di un futuro in una terra straniera, mi immagino i sorrisi, mi immagino le lacrime. La speranza. I sogni. Ma mi immagino anche le grida della reclusione. Della paura che ha creato delle crepe profondissime nel dialogo fra le persone. E mi immagino di nuovo le lacrime.
Sento la leggerezza di chi scrive poesia. Di chi crea. E penso che non ci sia modo migliore di raccontarsi se non attraverso le proprie parole. E che questo racconto possa descriverla al meglio senza la deformazione della paura.
Vi presento Agata. Questo post è tutto per lei. Per tutte le persone che non sono ascoltate e comprese. Ma che il silenzio del manicomio non è stato in grado di cancellare del tutto la loro voce.
Ecco a voi la poesia
NOSTALGIA D’EMIGRANTI
1.
Partì l’emigrante in cerca di fortuna
la notte era serena al chiaro della luna
una testa argentata lui stringeva sul cuor!
Oh! Mammina adorata un dì tornerò!
Quando la sera senti suonar l'”Ave Maria”
prega per chi è lontano e muor di “nostalgia”.
Voglio farti una casetta
oh mia bella reginetta
un giardino intorno intorno
poi starò sempre con te
Torneranno gli altri figli
pianteranno tantissimi gigli
e “felice” si starà
2.
Ma l’emigrante in terra straniera
non trova fortuna ed è triste alla sera
guardando le stelle, guardando la luna
invoca dal cielo un po’ di fortuna
sente più forte la nostalgia
vorrebbe tornare, ma chiara è la via
3.
Devo fare una casetta
per la bella Reginetta
un giardino intorno intorno
e non pensa più al ritorno
ci saranno tanti figli
pianteranno gli altri gigli
e felice lui sarà
Ma un dì l’emigrante vistita di nero
piangendo singhiozza! Ma no. Non è vero!
Oh! Terra lontana, Oh! Mamma adorata
Mai più stringerò la tua testa argentata
La notte è oscura, non c’è la luna
perchè si è spenta la vera fortuna
E’ nel cielo la regina
lui farà una cassettina
imbellita di celeste
per nascondere la veste
Spera invano una parola
Ma nessuno la consola
ha nel cuore una gran fiamma
guarda il cielo e grida “Mamma”!
[su_spacer][su_spacer][/su_spacer]
E solo dopo la poesia, in una riflessione sulla figura dell’emigrante, possiamo leggere anche qualche parola sul manicomio.
“Rodolfo Valentino” sia ricordato nel suo misterioso decesso – come misteriosi sono stati i miei due ricoveri anzi “Sequestri di persona”.
Ma volevo qualcosa di più da questa poesia. Non mi bastava la trascrizione. Volevo farla leggere a qualcuno che fosse capace di guardarla nel suo intimo, fra le righe. Ed ecco qua il testo che mi è stato inviato da Alessandro Attucci, che non smetterò mai di ringraziare, scrittore, editore presso Attucci Editrice e docente.
(ve lo ricordate il suo intervento alla poesia ROSSO di Pillole di Silenzio? Eccolo qua)
Una mano sensibile e uno sguardo delicato. Quello che serve per poter vivere il messaggio di Agata. Per salvarlo dall’oblio. Per farci sentire parte di un tutto più grande di noi.
Grazie di cuore Alessandro del tuo contributo e per la tua analisi capace di tenere vivo il messaggio di questa poetessa toscana. Perchè, citando un meraviglioso aforisma di Stanislas de Boufflers, “L’oblio è una seconda morte, che le anime grandi temono più della prima.”
Su una poesia ritrovata
di Alessandro Attucci
Rinvenire questa poesia in un tempo così remoto dalla sua composizione è la riprova che la vita umana è una ventura che può generare sentimenti, emozioni quando da tanto pareva ineluttabilmente e per sempre schiacciata, umiliata.
Certo non è frequente, ma stavolta con questa poesia un nome, una vita, una condizione sono emersi dalla tenebra della storia.
L’attenzione va insieme alla triste vita di Agata e alla sua poesia.
Ha ben ragione Giacomo nel dire che il manicomio è stato la dolorosa punizione per un vivere diverso che la società non accettava. Ogni tempo si è distinto in questo crudele esercizio (quanti geni e santi hanno rischiato le pene riservate ai folli e agli eretici), legato all’odio, al disprezzo, alla paura per la diversità.
Ma vorrei fermarmi un momento anche sulla poesia stessa.
Poche osservazioni, quasi solo spunti per riflessioni future (magari altrui, stimolate anche da queste mie parole).
Una delle prime sensazioni, se non la prima, che dalla lettura mi sono venute è il carattere pascoliano (non solo nell’intonazione). Non mancano, comunque, dei tratti letterari, anche se probabilmente l’autrice non frequentò la scuola oltre l’elementare. Non è da escludere un ruolo importante delle poesie lette e imparate a memoria (anche di Pascoli appunto), come si usava nella scuola di allora e ancora, per un bel tratto temporale, del dopo. Così come non si può allontanare dalla possibilità un’influenza di altre immagini, come quelle delle canzoni.
Il lessico, la costruzione sintattica, la musicalità piana ma non banale, l’uso libero delle rime (transizione, in uno dei percorsi della poesia italiana e occidentale in genere, nella direzione dei versi liberi), la struttura con due piani narrativi alternati, uno più reale, uno più trasognato, ma non fuori della realtà. Tutto questo mi porta a trovarvi dei meriti formali.
Forse agisce in questa poesia anche la presenza di un pensiero ottocentesco (predominante nei romantici, nei veristi e ancor più nelle ideologie delle forze politiche che si richiamavano al popolo, cattoliche, socialiste, democratiche radicali) che tracima nell’inizio del Novecento: la superiorità morale dei poveri. Se vi è (forse un po’ emerge esplicito nell’auspicio che correda la poesia), in Agata è probabilmente ̶ sentimento forse più che idea ̶ un convincimento naturale, spontaneo, sentire intimo della donna, dolente e fervida (così viene da immaginarla), che lei fu.
Oggi può apparire, per quanto così condivisa, una cosa ingenua, ma era parte di un sogno struggente, che divenne nella sua sorte disperato: che ci potesse essere una grande lega delle persone buone, un loro comune agire, nella speranza che non fosse già scritta per sempre la vittoria del male.
Per quanto piccola la finestra della sua vita sulla storia, il suo sentire e quei suoi versi parlano all’anima del mondo.
Lo so che c’è, così dicendo, il rischio di apparire retorici, ma non dobbiamo temere sempre a cercare il grande nel piccolo. Non cadeva forse l’ammonimento più grave di Gesù su chi avesse fatto del male ai più piccoli dei suoi fratelli nella fede?