E’ stata la struttura che ho più visitato in questo 2015. Un luogo ancora puro. Che non pensavo potesse esitere.
Ho già scritto molto su questo luogo ma è come se non fosse mai abbastanza.
Come quell’amico in cui sei in confidenza che inizia a raccontarti i suoi segreti. Le sue storie. Questo è quello che fa il manicomio di Voghera con me.
E’ come se regalasse i suoi racconti solo a chi non lo ferisce.
E’ uno scambio: lui ti mostra racconti a patto che tu non li distrugga.
[Tweet “I manicomi mostrano racconti solo a chi non li distrugge”]
Ne hanno viste molte di cose le pareti di questo luogo, me ne accorgo quando passo in circolo dentro LA ROTONDA, l’inferno degli agitati, una corridoio circolare che ricorda molto il panottico del Conolly di Siena, con una serie di camere senza angoli dove venivano rinchiusi a scopo puramente punitivo.
Non avevo mai visto niente del genere. Isolamento e alienazione ai massimi livelli.
Brandelli umani.
Le pareti stanno cedendo alla natura che piano piano riesce a recuerare il suo spazio originale. L’assenza di angoli rende ancora più minimale l’amibiente. Più vuoto. Camminiamo nel vuoto umano. Ho la sensazone che gli angoli di una stanza fossero più del semplice perimetro di un’area, come se rappresentassero la dimensione di una pagina di un libro biografico del suo ospite. Qua non ci angoli. Come se volessero cancellare anche la storie di chi fosse stato dentro queste celle.
Cammino nel vuoto umano e mi fermo a scattare.
[Tweet “Le stanze sono libri biografici dei suoi ospiti”]
Voghera, come altre realtà manicomiali, era una città autonoma. Continuo a camminare dentro queste mura e vedo la stanza di Luigina e Mario, una coppia che ha saputo guardare oltre il manicomio con la forza del loro amore. Essenziale il loro racconto, ci aiuta a vedere la vita in modo diverso.
Ogni volta che cammino nei suoi corridoi scopro sempre qualcosa di nuovo, di inaspettato. Sto leggendo pagina dopo pagina il libro del manicomio. Cammino accompagnato dal silenzio in stanze vuote e fredde. Polvere e intonaco. Mattoni e ancora silenzio. E mi soffermo a guardare fuori da una finestra il paesaggio. Il silenzio mi accarezza. Perchè il silenzio del manicomio ci isola dal mondo? Che sia la sua caratteristica? Se prima il suo silenzio non faceva acoltare le grida disprate dei suoi ospiti adesso ci protegge dal mondo esterno. Ci scava dentro. Nei nostri timori. Nella nostra immaginazione. Lo strumento del silenzio per farci ascoltare la nostra anima.
A terra vecchia mobilia che sembra stia lottando con chi le vuole far abbandonare il luogo. Aggrappate al pavimento. Ma è vero che i luoghi ed i suoi oggetti hanno un’anima?
Cammino e trovo la stanza del calzolaio, forse una delle migliori: dentro macchine e scarpe ancora in lavorazione. Me lo sono sempre chiesto il motivo di queste persistenze e non mi sono mai saputo dare risposta. Perchè gli oggetti sono rimasti come se fossero ancora in lavorazione? Perchè sembra che tutti siano andati via da un momento all’altro, lasciando tutto quello che avevano? Forse perchè questi oggetti vogliono che si racconti la loro storia?
[Tweet “I luoghi abbandonati hanno un’anima?”]
Continuo per corridoi polverosi ed entro in una stanza vuota, colore verde “istituzionale”, deambulatore davanti ad una finestra. Solo questo. Come se fosse uno spettarore. Camminiamo ancora nel vuoto umano. Ancora corridoi e ancora stanze vuote. Guardo fuori da una finestra di questa stanza e trovo il labirinto. Una decorazione floreale a libirinto, classica nei giardini italiani, parzialmente coperto dalla vegetazione. Immginarmi come fosse ai tempi del manicomio è quasi automatico.
Labirintoterapia o metafora della nostra mente?
Continuando in alcune stanze trovo strumenti medici ovunque. Libri. Siamo sempre più dentro il vuoto umano. Una stanza vuota con delle scarpe. Abbandoante in un angolo. Testimonianze dell’oblio. La stanza è buia, scatto con molta difficoltà. La foto è cupa, scura, in ombra. Proprio come la realtà che stavo vedendo. Un momento buio della nostra storia. Residui umani abbandonati in una stanza. Il cuore batte forte e penso ai passi trascorsi da quelle suole. A tutti i passi trascorsi. E vero che gli oggetti nascondono un anima, oppure vogliono soltanto che si racconti la loro storia?
E non può venirmi in mente chi il manicomio vero e proprio l’ha visto: Gianni Berengo Gardin, l’autore di “Morire di Classe”. Abbiamo fotografato insieme dentro il manicomio di Voghera quest’anno. Lui era alla ricerca di storie. Voleva rivedere cosa fosse rimasto di uno di questi luoghi dopo la riforma. Perchè il suo lavoro sui manicomi, che documentava la drammatica realtà a cui i pazienti erano sottoposti, era statto fatto prima della riforma.
La mano del maestro scorre sulla sua Leica alla ricerca di quelle testimonianze che sono rimaste dell’uomo. E mi colpisce la frase che mi ha detto “il manicomio, con le persone dentro, era molto forte.” Il silenzio non ti isolava dal mondo come oggi. Quando forti dovevano essere i rumori manicomiali? Guardo i corridoi vuoti e penso ai passi scomposti, le grida, le parole da dietro le porte. Quelle a cui cerchiamo di dare un volto ma che spesso non abbiamo il coraggio di vedere.
Non riesco ad immaginarmi quali immagini potessero passare nella testa di Gianni Berengo Gardin nel camminare di nuovo nel manicomio. E’ come accendere l’interruttore dei ricordi.
Grande esperienza anche fotografica, non solo umana. Pellicola in bianco e nero e una storia da raccontare. Quello che deve essere la fotografia. Strumento di comunicazione.
[Tweet “La fotografia cerca una storia da raccontare”]
Ma le stanze non finiscono, ed entro dentro una che mi fa paura. La sezione dei bambini. Un corridoio in cui la zona vecchia si trasforma in nuova. Il cuore batte forte. Le mani tremano di fronte a quella scena. Tutto era stato abbandonato. Biciclette. Scarpette. Sogni. Speranze. E mormoravano in quel corridoio. Lo percorro tutto fino ad arrivare in una stanza.
Di fronte a me una bicicletta per bambini illuminata solo da un fascio di luce che viene dalla finestra. Fra me e lei solo il pavimento pericolante. Come avere di fronte un bambino che ti tende la mano e tu non puoi afferrrarla. Scatto col cuore in gola. Con la consapevolezza di non riuscire a raggiungerla. Ma almeno di averla fotografata.
Esco da questa sezione e mi dirigo verso l’esterno, al muro del pianto e al muro della morte. Dietro al nome del primo, uguale alla famosa struttura in Israele, si cela un muro in cui è stato inciso questo nome e, vicino, note musicali. Musicoterapia. Mentre nel secondo, che forse prende il nome dalla frase incisa paura della morte per la parola MORTE che è ben visibile, troviamo sempre il nome inciso accanto alla frase CRISTO E’ RISORTO, sempre incisa. Come per non avere paura della morte. Speranza. Coraggio.
Dopo questi penso di aver visto tutto quando mi dicono “Aspetta, hai ancora un’altra stanza”. Ancora emozioni. Bulimia di storie. Ci mettiamo in cammino e attraversiamo i freddissimi e sileziosi sotterranei.
“Siamo arrivati, apri la porta”.
Con immensa emozione giro la maniglia, non mi sarei mai aspettato di trovare questa stanza di fronte a me questa cosa.
Immersa in un asfissiante odore di muffa, eccola, in tutto il suo splendore: la stanza delle feste.
Non credo ai miei occhi, la sala dei festeggiamenti con ancora i festoni appesi. E qua il cuore comincia a battere più forte. Non riesco più a definire quest’emozione, se è paura, ansia o emozione. Cammino lentamente in questa stanza guardando i suoi colori carichi. Saturi. Guardo gli addobbi. Scatto. E penso alle danze, ai sorrisi. Alle speranze. Quanti amori saranno nati durante queste feste? Quanti sorrisi avranno soppiantato momentaneamente la sofferenza? Mi prendo il mio tempo per pensare, per immaginare la gloria di questa stanza. Il rumore dei tacchi, forse anche di quelle scarpe che ho visto poco prima nella stanza, il roteare di chi balla, le sigarette fumate da chi stava a guardare. E cala il sipario sulla tristezza. Perchè que doveva esserci solo gioia. Che festa avranno festaggiato con quei drappeggi appesi? Chissà quante storie potrebbero raccontare se potessero parlare.
L’aria è irrespirabile ma questa stanza è un riscatto, un lezione di vita: dobbiamo trovare l’energia dentro di noi per resistere alle sofferenze, dobbiamo trovare il coraggio di sorridere perchè quella è la nostra più grande risorsa, trovare il coraggio di vivere la gioia anche se rinchiusa nella perentesi di una festa. Dobbiamo abbandonarci alla musica, al mondo. Abbandonarci alla vita. Essere leggeri.
Proprio come un passo di danza.
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