Il manicomio di Voghera non è un luogo come tutti gli altri.
E’ un custode di storie. Che non le racconta con facilità.
Voghera non riesce a raccontarti subito il suo passato, alla prima visita. Vuole vederti di nuovo. Incontro dopo incontro, il manicomio di Voghera riesce a scoprirsi sempre di più, mostrandoti particolari fino ad allora sconosciuti.
Devi guadagnarti la fiducia del luogo. Altrimenti non si espone.
Già da primi passi al suo interno mi accorgo che sto camminando in un luogo diverso dagli altri.
Cammino nella “rotonda”, un padiglione a base circolare dove erano destinati i pazienti agitati, con quella curva dove non si riesce a vedere la fine del corridoio. Come se andasse all’infinito. Circondato da quelle sue porte aperte. Quasi volessero mostrare cosa era nascosto al suo interno. Celle fredde, vuote, dure. Entro dentro una di queste e rimango colpito dalla mancanza di angoli alle pareti.
Prigionieri. Prigionieri di una cella. Prigionieri di un concetto che vede nella reclusione e contenzione un metodo educativo.
Scatto, non avrei potuto fare altrimenti: non si poteva non raccontare quel luogo.
Cosa avranno vissuto quelle porte? Grida, rabbia, speranza, dolore e ancora grida, rabbia, speranza e dolore.
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Continuo nei sotterranei, con la sua atmosfera gelata che ti arriva dritta in gola, e concludo il mio giro di fronte a 3 teschi urlanti conservati in una teca dentro un ufficio.
Erano vecchi teschi usati per studi scientifici, con numero scritto sulla fronte e bocca aperta per poter vedere bene la mascella.
Proprio come se stessero urlando.
E di fronte a queste urla che l’orecchio non percepisce, la nostra anima rimane colpita.